FRANK DE FELITTA
L'ENTITÀ
(The Entity, 1978)
ENTITÀ (lat. entitas): essenza, esistenza.
Qualcosa che esiste in modo separato e distinto,
reale o immaginario.
RINGRAZIAMENTI
Molti hanno contribuito, in modi diversi ma comunque importanti, alla stesura di questo libro: ad esempio Steven Werner, che ha costantemente collaborato; Barry Taff, Kerry Gaynor e Doris D., le cui vite lo hanno in parte ispirato; i dottori Jean Ritvo ed Edward Ritvo, che generosamente hanno messo a disposizione esperienze e fantasia; il dottor Donald Schwartz, che ha fornito utilissime informazioni; Barbara Ryan, il cui intuito eccezionale e specialissimo mi ha incoraggiato; Ivy Jones, con la sua abilità nel ricostruire situazioni drammatiche; Michael E. Marcus, Tim Seldes e Peter Saphier, con il costante sostegno e la trascinante energia; William Targ, il mio redattore, la cui critica costruttiva ha reso il libro migliore di quanto non fosse; e infine mia moglie Dorothy, con la fiducia, mai venuta meno, l'amore e il buon umore.
Vorrei inoltre esprimere la mia gratitudine al dottor Thelma Moss, i cui scritti e i cui dotti seminari di parapsicologia mi hanno guidato facendo di me un convinto sostenitore della probabilità dell'impossibile.
23 marzo 1977. Dichiarazione resa da Jorge (Jerry) Rodriguez, accusato di aggressione, raccolta dall'ufficiale di polizia John Flynn, matricola 1730522.
R. Già, senti, senti, ho finito. Abbiamo finito. Voglio dire, questo era troppo, non l'ho sognato. Qualcosa... qualcosa succedeva a Carlotta. Qualcosa succedeva in quella stanza. Io... che cosa devo dire? Non è che abbia esattamente visto qualche cosa. Però vedevo che cosa capitava a lei. E dovete capire che era... era a letto... Io stavo giusto uscendo dalla camera... preparandomi, capisce, preparandomi a raggiungerla. Mi voltai e la vidi. .. anzi prima la sentii; prima la sentii e stava... capisce, gemendo... faceva dei rumori come..., come se stesse facendo l'amore, però spaventata, come se non le piacesse ciò che provava. Mi voltai e credetti che si trattasse di una commedia, una specie di messa in scena per me, capisce, tipo 'sono pronta per te, paparino'. Eravamo molto, molto uniti e abbiamo sempre avuto ottimi rapporti. Così mi voltai, guardai e. .. vidi... qualcosa che stava schiacciando... quindi..., cercate di capire quello che sto dicendo, la schiacciava... Era nuda e vedevo che i suoi seni venivano... toccati... quindi, come dire, e non erano le sue mani, capisce, e credevo di avere delle allucinazioni. Guardai e dissi, Gesù, che cosa mi ha fatto impazzire? Tutte quelle chiacchiere folli coi ragazzi dell'università mi hanno dato delle visioni? Sto sognando? Così scrollai la testa, capisce, e guardai più attentamente, continuando a dirmi, capisce, che era una messa in scena, era una messa in scena. Però stava facendo qualcosa. Dissi: «Ehi, Carlotta, Carlotta...». Ma lei non rispondeva e i gemiti aumentavano ed era come... in pena... sempre più in pena. Guardando più da vicino, vedevo che... che i suoi seni erano premuti e schiacciati da dita... soltanto che io non vedevo le dita, della dita li stavano premendo, capisce, e i capezzoli erano compressi, vedevo il suo corpo come... uh... capisce, che stava saltando, come se qualcuno fosse su di lei, a far su e giù. Oh, Dio mio, dico, Gesù, che cosa diavolo sta succedendo? Poi vidi le sue gambe, che venivano aperte, allargate, una da una parte e una dall'altra e lei cominciò ad urlare, ma contemporaneamente teneva... stringeva... qualcuno... o qualcosa. Le sue braccia erano intorno a qualcosa. Ebbene, capisce, dico, Gesù, Signore Onnipotente, la stanno stuprando? Non riesco a vederlo, ma la stanno montando. Avevo quasi perso la testa. Non sapevo che cosa pensare. Capisce, mi creda, non sapevo che cosa stessi facendo... uh... la prima cosa che mi venne fra le mani... improvvisamente mi ritrovai con quella cosa vicino a lei. La... la... andai avanti con una sedia di legno e la fracassai... dovevo liberarla da quella cosa, dovevo salvarla. Dovete capire che l'amo, almeno... l'amavo. Non intendevo far del male a Carlotta, ma a quella cosa, quella cosa che c'era sopra di lei, che la stava schiacciando, insomma, la stava fottendo, scopando. E lei che gemeva, e io calai la sedia su di loro. La fracassai. (SFOGO DI PIANTO). Giuro davanti a Dio, e Dio mi è testimone, questo è quanto è successo. Ho visto qualche cosa. Almeno ho visto qualche cosa che lei stava subendo. Qualcosa sopra di lei. Non lo vedevo coi miei occhi, ma c'era sicuramente qualche cosa, dovete credermi, li c'era qualche cosa. Credetemi, ho perso la testa. (SFOGO DI PIANTO). Se mai uscirò da questo pasticcio, vi assicuro che me la squaglierò per sempre. Era una ragazza fantastica, Carlotta... Mi piaceva. Per un certo tempo siamo andati molto bene. Ma... le è successo qualche cosa... le è successo qualche cosa. Vi dico che è nei guai... In grossi guai. Qualche cosa si è impadronito di lei. Qualcosa. Non so che cosa sia, ma... Carlotta è nei guai.
PARTE PRIMA
Carlotta Moran
... Vieni, spirito
Tu che custodisci i pensieri mortali, rendimi libero,
e riempimi dalla testa ai piedi, pieno raso
della più orrenda crudeltà!...
SHAKESPEARE
1
13 ottobre 1976, ore 22,04
Non c'era stato alcun avvertimento. Nessuna possibilità di prevedere. Nulla di nulla. Era scesa dall'auto. Le doleva la schiena. Ricordava d'aver pensato: l'assistenza sociale è una bella cosa, ma ti fa fare quello che vuole lei. Ora doveva recarsi alla scuola per segretarie. Non che le importasse, ma in un certo modo era buffo. Perché lo fosse non sapeva dirlo. Le fece male chiudere la portiera.
Dovette attraversare la strada per raggiungere la sua casa. Questo perché ritornava sempre a casa dopo la scuola posta in fondo alla Kentner Street e non valeva la pena prendersi il fastidio di girare la pesante Buick. Il garage era di Billy. Ne aveva bisogno per i suoi motori, le sue auto e chissà che altro. Così attraversò la strada, sempre con la schiena che le doleva. Si era fatta male l'anno precedente, aiutando il fattorino dell'autobus ad alzare un mastello di piatti sporchi. Veramente stupido.
Il vento era secco e sollevava minuscole foglie marrone e crocchianti, trascinandole per il marciapiede. Le foglie non cadevano mai a Los Angeles West. Sembravano sparpagliarsi ad ogni stagione, come piccole cose morte, quasi con una propria vita privata. Era talmente secco che si poteva avvertirlo in gola. Quella aridità desolata che arriva dal deserto e rende depressi da morire.
Carlotta guardò la strada mentre attraversava. La stazione di rifornimento ad un miglio di distanza pareva una macchia di luce. Quasi si guardasse dalla parte sbagliata di un telescopio. Come appariva distante qualsiasi attività umana! Tutte le case con minuscoli prati cinti da steccati per i cani. Ma persino i cani erano addormentati. O almeno tranquilli. Si udiva soltanto il rombo lontano dell'autostrada, che scorreva come un fiume, sopra le abitazioni buie.
Kentner Street era una strada senza uscita e terminava con una protuberanza di marciapiede dove si poteva girare la macchina e lei si trovava proprio all'estremità.
Entrando in casa, sentì il figlio Billy nel garage. Si udiva la radio ronzare appena. Carlotta accostò la porta alle spalle e la chiuse a chiave. Lo faceva sempre. Billy si serviva di una entrata laterale. Si tolse la giacca beige e sospirò stancamente. Gli occhi percorsero il soggiorno. Nulla era fuori posto. Le sigarette stavano sul tavolino accanto al divano. C'erano delle scarpe sul pavimento, con indumenti e riviste, una tazza da caffè. Una spirale rotta sbatteva violentemente quando il termostato scattava. Era proprio come scivolare in un vecchio paio di scarpe. Era confortevole. Qui Carlotta si rilassava. Non esisteva più il mondo esterno. Il mondo finiva alla porta. L'assistenza sociale pagava l'affitto; ma era la sua casa. Era simile ad altre migliaia costruite su un identico progetto e sparse per tutta la città. Giusto una scatola da abitare. Però era sua. Il luogo dove lei ed i ragazzi si riunivano.
Entrò in cucina e accese la luce. La lampadina nuda rendeva abbagliante la parete. Nel frigorifero non c'era birra. Le sarebbe piaciuto berne una, ma non c'era. Sedette per un attimo nel locale squallido e come calcinato, poi si diresse verso il fornello e si accinse a riscaldare del caffè.
Erano le 10. Anzi, appena poco dopo, perché ci volevano circa venti minuti per tornare dalla scuola. Ma non ancora le dieci e mezza, giacché Billy per quell'ora sarebbe rientrato per coricarsi. Erano molto severi in proposito. Avevano stabilito un accordo. Era padrone assoluto della rimessa, purché rientrasse per le 10,30. Billy si atteneva bravamente ai patti. Quindi era fra le 10 e le 10,30 della sera di mercoledì 13 ottobre. L'indomani ci sarebbe stata di nuovo la scuola per segretarie. Un giorno come tutti gli altri. Dalle nove all'una: dattilografia. La sera di due volte la settimana: stenografia.
Carlotta si alzò dalla sedia, non pensando a nulla di particolare. Spense la luce e camminò lungo l'angusto corridoio sino alla camera da letto, sostando un attimo a guardare in quella delle bambine.
Julie e Kim dormivano come se si trattasse di un affare molto serio, con la lucina per la notte, un animale di peluche con all'interno una lampadina, che ne illuminava appena i volti. Sembravano gemelle, malgrado i due anni di differenza. Padre diverso da quello di Billy. Graziose come angeli. Un giorno o l'altro, grazie a Dio, niente più assistenza sociale. Più nulla del genere. Qualcosa di meglio. Chiuse la porta della camera delle bimbe addormentate e si diresse verso la sua.
Il letto era sfatto. Quell'enorme, assurdo letto che un inquilino non avrebbe potuto traslocare senza abbattere tutte le porte. Aveva quattro colonnette con viticci ed angeli scolpiti sulla testata ed ai piedi. I giunti erano incollati e non c'era verso di staccarli. Era un'opera d'amore, costruita su un disegno già approssimato, nella stanza stessa. Il falegname era stato certamente un maestro artigiano, un artista, un poeta. Quanto doveva aver rimpianto essere costretto a lasciare tanto lavoro dietro di sé. Carlotta amava quel mobile. Era unico nel suo genere, una fuga dal tedio. Anche Jerry lo amava. Jerry confuso, nervoso, che si chiedeva in che cosa diavolo stesse ficcandosi. Povero Jerry. La mente di Carlotta perse il filo del pensiero.
Si spogliò, indossò una vestaglia rossa e andò alla finestra. Chiuse entrambe le ante e controllò che fossero fermate bene. A causa del vento, se non si agganciavano solidamente, facevano rumore per tutta la notte.
Si tolse le mollette dai capelli. Caddero fluenti e neri sopra le spalle. Si guardò allo specchio. Sapeva di essere graziosa. Capelli scuri, pelle chiara, morbida e vulnerabile. Ciò che aveva di più bello, però, erano gli occhi: vivaci e fondi. Jerry diceva che erano 'lampeggianti'. Carlotta si pettinò. Aveva la luce alle spalle proprio dietro la testa, cosicché un alone si irradiava illuminando i risvolti scuri della vestaglia rossa.
Sotto era nuda. Il corpo appariva minuto e morbido. Era di ossatura minuscola. Aveva una leggerezza naturale nell'andatura e nei movimenti. Nessuno l'aveva mai trattata rudemente. Nulla c'era in lei di tanto forte che gli uomini volessero spezzare o costringere. Ne apprezzavano invece la vulnerabilità la figura e l'agilità. Carlotta studiò i piccoli seni ed i fianchi stretti, guardandosi con gli stessi occhi con cui sapeva che la vedevano i maschi. Aveva compiuto i trentadue anni un mese prima. Le sole rughe sul volto si irradiavano dagli occhi ed in verità erano soltanto di espressione. Poteva perciò essere soddisfatta del suo aspetto.
Aprì l'anta dell'armadio a muro. Dentro, ben allineate, erano disposte le scarpe. Carlotta aveva il senso dell'ordine. Mentre cercava le pantofole pensava se fare la doccia. Nell'armadio non c'erano angolini nascosti; sembrava piuttosto una piccola scatola ricavata dalla parete.
La casa era mortalmente quieta. Le sembrava che tutto il mondo fosse addormentato. Questo era ciò che ricordava di aver pensato prima che accadesse.
Un momento prima Carlotta si stava spazzolando i capelli ed un momento immediatamente dopo era sul letto, vedendo le stelle. Una spinta, simile a quella di un portiere che subisce una carica, l'aveva scaraventata per tutta la stanza. Con la mente vuota, si era resa conto che sentiva i guanciali intorno al capo. Poi le furono schiacciati contro il viso.
Presa tra un respiro e l'altro, fu colta dal panico. Il cuscino veniva premuto con sempre maggior forza. La tela stava per esserle ficcata in bocca. Faticava a respirare. La forza che premeva sul cuscino era spaventosa. Le schiacciava la testa contro il materasso. Nell'oscurità Carlotta pensò che stava per morire.
Fu l'istinto che la portò ad aggrapparsi al guanciale, a prenderlo a pugni, a storcere violentemente il capo da una parte e dall'altra. Fu un'eternità durata un attimo. Lunga una vita, ma troppo breve per poter pensare. Lottava per vivere. Una luce gialla le galleggiava davanti agli occhi. Il cuscino le copriva completamente il volto, gli occhi, la bocca, il naso. Le braccia flagellavano l'aria ma non riuscivano a scostarlo. Il petto le stava per scoppiare.
Il suo corpo doveva essere stato sbattuto sul letto senza che se ne accorgesse, perché ora esso era stretto e stretto forte.
Carlotta stava sprofondando in una morte disperata, ma avvertì ugualmente mani enormi sulle ginocchia, sulle gambe, in mezzo alle gambe. Queste vennero spalancate completamente ed allora un barlume di pensiero galleggiò nella coscienza e capì. Questo la riempì di energia. Le diede una forza selvaggia. Si impennò e scalciò. Le braccia si agitarono e quando si inarcò di nuovo per colpire, per uccidere se necessario, un dolore bruciante le lacerò il basso ventre, rendendola impotente. Le gambe vennero distese, aperte sul letto e, come un'asta, un rozzo palo brutale, la penetrò, la dilatò, si fece strada con forza dentro di lei sino in fondo, come una pugnalata dolorosa. Carlotta si sentì internamente straziata. Si sentì lacerata dai colpi ripetuti. Era la più crudele delle armi, ripulsiva, torturante. Stava conficcandosi con forza. Il corpo sprofondava nel materasso, premuto, spinto da quell'ariete che la stava riducendo in un pezzo di carne torturata. Carlotta mosse il viso, il naso annusò aria, la bocca ansimò e inalò ossigeno di lato.
Si udì un urlo. Era quello di Carlotta. Il cuscino le fu rischiacciato sul viso. Questa volta avvertì una mano enorme e dita che le premevano sugli occhi, sul naso e sulla bocca.
Sprofondò nell'oscurità. Non aveva visto nulla. Soltanto la parete lontana e neppure quella, soltanto un vago colore fra i lampi e le spirali che le danzavano davanti agli occhi prima che il guanciale venisse schiacciato nuovamente sopra di lei. Crollò e le forze l'abbandonarono. Stava morendo. Presto sarebbe morta. Già l'oscurità stava aumentando ed il dolore la invadeva tutta ed era invincibile. Era morta?
La luce la colpì. La luce centrale. Billy era sulla soglia. Aveva gli occhi fuori dalla testa. Carlotta si rizzò a sedere, sudata, guardando il figlio con occhi vitrei.
«Mamma!».
Afferrò il lenzuolo e si coprì il corpo a pezzi. Piagnucolava, quasi gemeva, ancora incerta di chi si trattasse. Un dolore acuto le attanagliava il petto. Circoli e stelle le danzavano davanti e gli occhi era come se fossero stati pestati.
«.Mamma!»
Era la voce di Billy. Lo spavento, la compassione e la tenerezza in quella voce risvegliarono qualche istinto in Carlotta, il bisogno di riprendersi, di focalizzare mentalmente, di agire.
«Oh, Bill!».
Il ragazzo le corse vicino. Si abbracciarono. Lei piangeva La nausea la soffocava. Si rese conto del dolore che le attana gliava le parti più intime e si irradiava fra le cosce, fino all'addome. Era come se fosse stata lacerata. Un fuoco cresceva in lei e non accennava a cessare.
«Billy, Billy, Billy...!».
«Che cosa c'è, mamma? Che cosa è successo?».
Carlotta si guardò intorno. Ora capiva la cosa peggiore. Non c'era nessun altro nella stanza.
Si voltò rapidamente. Le finestre erano ancora chiuse. In preda al panico schizzò fino all'armadio. C'erano soltanto scarpe ed abiti. E poi era troppo piccolo per nascondere una persona.
«Hai visto qualcuno?».
«No, mamma. Nessuno».
«L'ingresso sul davanti è chiuso a chiave?».
«Sì».
«Allora è in casa!».
«Non c'è nessuno, mamma!».
«Voglio che tu chiami la polizia».
«Mamma. Non c'è nessuno in casa».
La mente di Carlotta vacillava. Billy era quasi calmo. Soltanto spaventato nel vederla in quello stato. Il suo volto sudicio stava scrutando quello di lei, con la delicata paura del bambino, con la sensibile tenerezza del giovanissimo.
«Non hai proprio visto nessuno?» chiese Carlotta. «Non hai sentito nessuno?».
«Soltanto quando hai urlato. Sono corso qui dal garage».
Julie e Kim erano in piedi sulla soglia. Apparivano terrificate. Guardavano Billy.
«È stato un sogno», spiegò il bimbo. «Mamma ha avuto un brutto sogno».
«Un sogno?» ripeté Carlotta.
Billy stava ancora parlando. «Anche voi avete fatto dei brutti sogni. Ora è capitato alla mamma. Tornate a letto».
Immobili, le bimbe rimanevano come impietrite sulla soglia, fissando Carlotta.
«Guarda nel bagno», suggerì lei.
Si girarono come automi.
«Ebbene?».
«Non c'è nessuno», rispose Julie. Il comportamento della madre la stava spaventando fin quasi alle lacrime.
«Stai tranquilla», intervenne Billy. «Torniamo tutti a letto. Via, ora».
Carlotta, incredula, meccanicamente si strinse il lenzuolo intorno al corpo, rimboccandolo. Cercò di controllare il tremito che l'aveva presa. La mente era confusa. Il corpo a pezzi. Però la casa era calma.
«Gesù, Billy», disse.
«Era un sogno, mamma. Qualcosa di veramente fantastico».
La coscienza le ritornò come se si fosse trattato, dopo tutto, proprio di un sogno. Una sorta di risveglio, una sorta di uscita dall'inferno.
«Gesù», mormorò.
Guardò l'orologio. Erano le 11,30. Quasi. Forse era passato il tempo sufficiente per un breve sonno. Però Billy era ancora vestito, in jeans e maglietta. Che cosa era accaduto dunque? Cercò di sedersi, ma era troppo dolorante.
«Riporta a letto le bambine, ti dispiace, Billy?».
Questi spinse fuori le sorelle. Carlotta allungò il braccio per prendere la vestaglia. Era spiegazzata e formava un mucchietto rosso sul pavimento. Non si trovava neppure accanto alla sedia dove di solito la lasciava.
«Usciamo di qui», stabilì.
Indossò la vestaglia, sedendo sull'orlo del letto. Il corpo le sembrava come prosciugato. Si guardò le braccia. Delle strisce bianche risaltavano sopra i gomiti. Sentì che un dito si era slogato nella lotta. Lotta? Con chi?
Carlotta si alzò. Poteva a malapena camminare; si sentì quasi sventrata. Per un solo momento, ebbe la strana sensazione di non essere in grado di dire se stava sognando o se fosse sveglia. Poi la sensazione passò. Si esplorò attentamente ed avvertì una leggera umidità. Niente sangue. E nulla, nessun altro segno. Lentamente si strinse addosso la vestaglia e lasciò la stanza. Per la prima volta il letto le apparve mostruoso, uno strumento di tortura. Poi chiuse la porta.
Carlotta non aveva dubbi sul fatto di essere stata picchiata e violentata. Sedette su una sedia di cucina. Julie e Kim stavano bevendo latte e mangiando biscotti. Billy era incerto accanto alla porta. Dovevano andare a letto, oppure c'era ancora qualche cosa che non andava?
Era un po' come aver un lutto in famiglia, pensò Carlotta. Si sa che poi sarà meglio, che tutto tornerà normale, che si dimenticherà, ma nel frattempo bisogna vivere con la sensazione di essere soli in un pozzo scuro. Di essere perduti e spaventati. E non si sa quanto potrà durare.
«Adagio coi biscotti,» ammonì. «Vi sentirete male». Kim con la bocca sporca di cioccolata fece una smorfia. Julie bevve rumorosamente il latte. A Carlotta parvero vulnerabili.
«Guardiamo la televisione», annunciò.
Sedettero sul divano. Billy accese l'apparecchio. Delle dive del cinema che Carlotta non riusciva ad individuare erano sedute compostamente in ciò che sembrava essere un lussuoso attico di New York. Billy si sistemò in una poltrona accanto al ventilatore. Tutto sembrava normale, ma appariva irreale. Era come guardare attraverso un vetro che in qualche maniera rendesse ogni cosa strana e distorta.
Carlotta era una realista. La sua concezione della vita era basata sulle necessità e sulla esperienza. Coltivava scarse illusioni su di sé o sul suo destino. Taluni vivono in una sorta di finzione, tentando di essere ciò che non sono, incerti su quella che è la loro vita. Ma un po' di povertà, un po' di sfortuna e dei tempi duri, ed ecco che si arriva a sapere a che punto ci si trova. Ciò che in quel momento maggiormente affliggeva Carlotta, oltre al dolore fisico, era l'incapacità di immaginare che cosa fosse reale e che cosa non lo fosse.
«Ma quello è Humphrey Bogart», annunciò Billy. «Ho già visto questo film».
Carlotta stirò la bocca in un debole sorriso. «Non eri ancora nato quando il film è stato girato».
Billy la guardò sulla difensiva.
«L'ho visto all'YMCA. Stai attenta. Sta per essere ucciso».
«Viene sempre ucciso in questi lavori».
Billy sprofondò di nuovo nella poltrona.
«Conosco tutta la storia», mormorò.
Carlotta guardò le bimbe sul divano. Come due bambole avvolte in una coperta che una di. loro doveva aver trascinato dalla camera, dormivano immemori di tutto. Si succhiavano i pollici, seriamente e intensamente.
«Abbassa un poco la voce, Bill», disse.
Col passare delle ore finalmente si addormentarono tutti. Ma a tratti. Carlotta coi piedi appoggiati al tavolino e Billy nella grossa poltrona con una gamba posata sul bracciolo. Soltanto i guizzi dell'apparecchio televisivo, quasi muto, davano una parvenza di vita alla casa.
Carlotta sobbalzò e il corpo fu subito vigile. Fissò il chiaro rettangolo di luce contro la parete accanto al ventilatore. Billy ad un certo punto della notte doveva aver spenta la televisione, perché ora era buia e lui a letto. Le bimbe dormivano sul divano e la gamba di Julie era posata sullo stomaco di Kim. Carlotta guardò l'orologio di cucina. Erano le 7,35. Fra mezz'ora doveva recarsi alla scuola. Il pensiero la deprimeva.
Si sentiva la testa pesante. Una delle peggiori notti che avesse mai passato. Si mise a pensare alla sera prima. Ma era proprio soltanto la sera prima? La sensazione, la repulsione di tutto la sopraffecero e, con esse, la nausea. Balzò in piedi e si diresse verso il bagno, dove si sfregò i denti per cinque minuti interi.
Nel corridoio c'era un cesto di indumenti puliti da stirare e pescò fra di essi che cosa potesse mettersi, piuttosto di arrivare fino all'armadio della camera. Reggiseno, mutandine, una gonna blu di cotone. Tutte le camicette erano stropicciate. Ne prese una e la coprì con un golf, sperando in una giornata non troppo calda.
La sveglia accanto al letto trillò. Stette in ascolto, osservando le bimbe agitarsi. Billy comparve, mezzo addormentato. Attraversò il corridoio in mutande e la fermò. Poi, senza guardare la madre, ciondolò di nuovo verso la camera e sedette sul letto sbadigliando, in attesa dell'energia necessaria per vestirsi.
«Grazie», disse.
Che cosa avrebbe fatto? Ogni muscolo era dolorante. Non c'era tempo per prendere il caffè. L'assistenza sociale avrebbe protestato se a scuola fosse stata assente anche per un solo giorno. Carlotta si sentiva profondamente depressa.
Pose sul tavolo di cucina una ciotola di frutta ed una scatola di cornflakes per la colazione. Prima di uscire svegliò le bambine. La casa era afosa, claustrofobica. Uscì nella viva luce del giorno, salì in auto e si avviò verso la scuola per segretarie.
2
14 ottobre 1976, ore 1,17 del mattino
Carlotta dormiva nell'enorme letto. Si svegliò, percependo come un rumore di topi attraverso la parete. Grattavano e zampettavano. Poi annusò qualche cosa di terribile. Era un tanfo di carne putrefatta. Balzò a sedere.
Fu colpita sulla guancia sinistra. La botta la fece roteare in parte, quasi rovesciandola e lei spinse in fuori il braccio per aggrapparsi. Questo le fu tirato. Il volto le venne schiacciato sulla coperta. Avvertì una grande pressione sulla nuca.
Scalciò all'indietro, senza però toccare nulla. Un braccio potente l'afferrò intorno alla vita e la sollevò, così che si trovò carponi. La camicia da notte le venne sollevata sopra la schiena e venne violentata da dietro. La cosa, la gigantesca dimensione, il dolore trovarono rapidamente il varco e penetrarono velocemente, conficcandosi con forza e continuamente come se lei fosse solo quello e non un essere umano.
Questa volta la coperta su cui il suo viso premeva non era un bavaglio perfetto come la sera prima quando era stata quasi soffocata dal guanciale. Poteva quasi urlare attraverso la lana. O almeno poteva tentare. Quella mano possente forse non avrebbe potuto zittire l'ansare e il pianto spaventato di una donna in angoscia.
Udì una risata. Una risata demenziale. Né maschile né femminile, ma indecente e lasciva. La stavano osservando.
«Apri, stronza», ghignò la voce.
Carlotta diede un morso alla mano. Incontrò della materia? Sì, i denti penetrarono in una sostanza elastica, ma essa si ritrasse facilmente. Un colpo sulla nuca le accese scintille negli occhi. Perché non finiva? Il letto intero oscillava.
La luce era accesa. Proprio come la sera prima. Soltanto che questa volta, invece di Billy, vide il vicino, Arnold Greenspan, con la mano sull'interruttore. Aveva un'aria ridicola. Un vecchio dalle ginocchia bernoccolute, con un soprabito gettato sopra il pigiama e un cerchione di ferro in mano. Che cosa aveva intenzione di fare con quel cerchione, un uomo debole come lui? Appariva spaventato a morte.
«Mrs. Moran!» gridava. «Mrs Moran! Sta bene?».
Aveva un'aria strana e urlava con tutta la forza dei polmoni, mentre si trovava solo ad un metro di distanza. Perché gridava? Perché Carlotta stava urlando. Lei cercò di smettere, ma il suo corpo era scosso da spasmi e ansimi.
«Mrs. Moran!!» era tutto ciò che riusciva a dire.
Ora, sulla porta, da sotto il gomito di Greenspan, apparve il volto terrorizzato di Billy. Carlotta li stava fissando senza espressione, tremando e rabbrividendo come una bestia ottusa. Greenspan le guardava i seni, gonfi ed arrossati, come se fossero stati cincischiati con forza.
«Billy», disse Greenspan. «Vai a chiamare la polizia. Di' all'agente di turno...»
Carlotta cercò di schiarirsi le idee.
«No. No».
«Mrs. Moran», ribatté Greenspan, «lei è stata...»
«Non voglio la polizia».
Il vicino abbassò il cerehione di ferro. Si accostò al letto con gli occhi umidi. La voce tremolante rivelava un profondo interesse.
«Non sarebbe meglio parlare con qualcuno? Ci sono anche delle donne poliziotto».
Greenspan non aveva dubbi su quanto era accaduto. Per lui non si trattava certo di un incubo.
«Non mi va di passare attraverso tutta la trafila», spiegò Carlotta. «Lasciatemi sola».
Il vicino la guardò. La confusione nella sua mente aumentava. Billy si avvicinò al letto.
«È accaduta la stessa cosa ieri sera», dichiarò.
«Ieri sera?» chiese Greenspan.
Carlotta stava riprendendosi dall'attacco isterico. A poco a poco i pensieri razionali si andavano facendo strada tra il buio labirinto di paura.
«Oh, Dio!» mormorò fra le lacrime. «Dio del cielo!».
Greenspan la fissava intensamente.
«Ieri sera rammento di aver sentito qualcosa», dichiarò. «Ma credetti, e mia moglie insistette, capisce, che degli uomini e delle donne stessero lottando. Secondo me era qualcosa d'altro, ma...».
«D'accordo», concluse Carlotta.
Soltanto in quel momento si rese conto che l'anziano gentiluomo era in presenza di una donna nuda. Si avvolse nel lenzuolo, tenendolo fermo col braccio. Ci fu un silenzio imbarazzato.
«Non gradirebbe un caffè?» offrì Greenspan. «O della cioccolata calda?».
La voce era mutata. Aveva perso il tono di urgenza. La naturale gentilezza stava prendendo il sopravvento. Perché questo disturbò Carlotta?
«No», rispose. «Grazie».
«Ne è sicura? Prenda qualche cosa, la prego, Mrs. Moran. Lei e i bambini. Vengano da noi. Abbiamo posto. Stanotte può dormire lì. Domani potremo riparlarne. Dovrebbe vedere qualcuno...».
«No», ribatté Carlotta. Ora era razionale. «Va tutto bene».
«L'altra sera è stato persine peggio», interloquì Billy.
Di colpo Carlotta capì che cosa la stesse disturbando. Perché Greenspan aveva abbassato il cerehione di ferro? Perché non riteneva che in casa ci fosse qualcuno? Ad esempio nell'armadio? Perché non controllava le finestre? Si voltò. Naturalmente erano ancora ben chiuse dalla sera prima. Perché quel vecchio non era più spaventato? Perché non si era precipitato nel bagno, colpendo violentemente qualche cosa di sconosciuto dietro la tenda della doccia con quella sua arma sciocca ed inefficace?
«Si è fatta male, Mrs. Moran», continuò Greenspan. «Deve essere curata».
Ecco com'era. Non credeva più alla stessa cosa di quando aveva acceso la luce e, terrificato, aveva visto la sua vicina chiaramente violentata e picchiata. Ora era troppo sollecito, e il suo interesse un tantino troppo gentile.
«Mrs. Greenspan potrebbe èsserle utile. Potrebbe stare qui con lei, se crede».
Credeva che fosse ubriaca. O drogata. Glielo leggeva negli occhi. Erano incuriositi e in cerca di sintomi, per così dire, di quegli strani ed insoliti attacchi. Lei lo odiava per questo.
«Che ora è?» chiese.
«Le due», rispose Billy.
«È stata sola tutta la sera?» domandò Greenspan.
«Coi bambini», precisò Carlotta. «Guardi. Sto benissimo. Proprio uno di quei maledettissimi incubi. Mi spaventano da morire. Ma ora sto bene. Sto bene veramente».
Si infilò la vestaglia, girandosi con modestia e risistemò il lenzuolo sul letto. Accidenti, aveva bisogno di sonno, pensò, mentre si stringeva il cordone intorno alla vita.
«Usciamo di qui», propose.
Passarono ne! soggiorno.
«Vada pure a casa, Mr. Greenspan», disse Carlotta. «Tutto è a posto».
«A posto? Non ne sarei così sicuro...».
«Glielo assicuro. Va bene. Assolutamente».
L'uomo la guardò direttamente.
«Naturalmente sono ben più vecchio di lei e conosco molto della vita. E altrettanto Mrs. Greenspan. Lei deve parlare con qualcuno. Bisogna andare a fondo della cosa. Vorrei che si sentisse libera di venire da noi a prendere un caffè. E parlare. Di qualsiasi cosa».
«Lo farò», acconsentì. «Buonanotte, Mr. Greenspan».
Dopo che fu uscito, Carlotta chiuse la porta a chiave. Billy la guardava. Rimasero in silenzio per qualche momento. Lei non sapeva che cosa fare e che cosa dire. La sua mente continuava a turbinare, come in un lento carosello.
«Non intendevo buttarlo fuori», spiegò, «soltanto volevo restare da sola a pensare».
«Certo, mamma».
«Pensi che stia impazzendo?».
«Oh, no, naturalmente».
Lo trasse vicino. Buon, piccolo Billy, pensò. I bravi ragazzi erano difficili da trovare, ma lei ne aveva uno.
«Che cosa devo fare?» chiese.
Non ebbe risposta.
Era una sinistra ripetizione della sera prima. Le bambine erano sulla soglia del soggiorno. Questa volta aspiravano rumorosamente col naso come se fossero malate. Malate di paura.
Carlotta sedette sul divano. I seni doloravano come se glieli avessero strappati dal petto. Billy si accomodò nella grande poltrona, ma nessuno accese la televisione. Carlotta non dormì. Perché era accaduto e non era accaduto. Era e non era. Era stata sveglia e tuttavia era stata svegliata da una cena cosa. Il corpo le doleva in tutte le parti tenere. La mente frugava fra gli avvenimenti delle ultime due sere, cercando di mettere insieme una risposta.
Il braccio: aveva sentito il braccio e il pene, fin troppo reale. Urgente, ma non veramente caldo. Però duro come più non si poteva. E il peso su di lei. Di questo non era completamente sicura. Si trattava piuttosto di una pressione che non di un autentico peso fisico, più una incredibile trazione verso il basso, una gravità opprimente. Non c'era una vera sensazione di qualche cosa come un corpo sopra di lei, ad eccezione delle mani e del pene.
Carlotta si svegliò completamente. Capì che per quella notte non avrebbe potuto dormire. Due notti senza dormire. Si sentiva la testa come se fosse piena di cotone. Ogni suono, ogni movimento dei figli, ogni ronzio, cigolio e stridio nella casa la facevano sobbalzare.
E la voce? Quella antica voce demenziale? Pareva provenire da un corpo piccolo, come da un vecchio storpio e senza gambe, sebbene non avesse visto nulla in ambedue le notti. La voce l'aveva udita o l'aveva immaginata? C'era differenza?
L'oscurità si trasformò in grigiore e poi un lento rettangolo di luce si formò sulla parete. Luce del giorno. La sveglia suonò. Billy si destò nella poltrona, ma era troppo stanco per muoversi. Carlotta non lo poteva, non si sarebbe alzata. Il trillo continuò come una debole zanzara molto irritata. Lentamente si affievolì e tacque.
Carlotta guardò l'orologio di cucina. Erano quasi le 8. Doveva muoversi in fretta. La scuola prendeva nota delle presenze e delle assenze. Il collo le bruciava. Strinse di più il cordone della vestaglia intorno alla vita. Pensò a Jerry. Dov'era? Ancora sei settimane in giro. Sei settimane prima di rivederlo. Aveva bisogno di lui. Era solido. Aveva bisogno di qualcuno. Era come una premonizione. La vita stava cambiando, divenendo terribile tutta in un colpo. Perché? Si distese pesantemente, piegò le braccia e si addormentò.
Quando si svegliò, Billy se ne era andato. La sua mente vacillante tentò di connettere. Sedette sull'orlo del divano, il corpo le doleva ed era fiacca. Erano quasi le 4. Le bambine erano tornate da scuola ed erano fuori a giocare. Le sentiva sul marciapiede. Si voltò e dalla finestra le vide che scrivevano col gesso sul cemento. Si diresse verso la cucina e riscaldò il caffè.
Ogni cosa era assolutamente immobile. Sentiva il ronzio dell'orologio a parete. Tutto pareva stranamente silenzioso, come un momento di bonaccia durante un ciclone. Provò a pensare più razionalmente che poteva; se la cosa succedeva ancora una volta... Allora? Fece una pausa, con la tazza del caffè accostata alle labbra. Allora sarebbe scappata, ecco tutto. Avrebbe lasciato la casa. Aveva la sensazione che la radice di tutto fosse quasi certamente nella casa. Sì, se fosse accaduto di nuovo, se ne sarebbero andati. Un po' di roba e via. Ma dove? Da Cindy? Sì, Cindy Nash li avrebbe ospitati. Per un giorno, due giorni. Avrebbe inventato qualche storia... Nella casa c'erano le termiti e la stanno disinfestando. Che diavolo. Cindy era una buona amica. Non c'era bisogno di propinarle qualche fandonia. Potevano rimanere da lei una settimana se necessario. Poteva darsi che Jerry tornasse a casa in anticipo.
Di tanto in tanto lo faceva. Arrivava d'improvviso tra una città e l'altra. La sosta frettolosa di una notte prima di continuare il giro. A volte per un intiero fine settimana. Carlotta sorrise debolmente. Maledizione. Perché non ha lasciato un numero del telefono? O non ha mai pensato di chiamarla? Sorbì il caffè. Era già tiepido. E se Cindy non poteva ospitarli? Se George avesse avuto qualche cosa da obiettare? Allora? Carlotta aggrottò la fronte, ma non trovò una risposta. Non c'era soluzione. Soltanto aspettare e sperare che nulla...
Billy comparve di ritorno dalla scuola. Il resto del mondo veniva a casa dal lavoro e lei si stava appena svegliando. Una crescente sensazione di buio le galleggiava nella mente, come se qualche cosa, forse la sua vita intera, potesse scivolare in un abisso se lei non fosse stata attenta e non avesse fatto proprio la mossa giusta.
«Ciao, mamma», disse Billy.
«Che cosa ti rende così felice?».
«Sono stato eletto segretario del club delle auto meccaniche. A scuola».
«Fantastico. Senza scherzi? Io non sono mai andata oltre la squadra B della claque».
Billy alzò un taccuino grigio scuro e alquanto sciupato, evidentemente in uso da molti semestri.
«È il libro mastro ufficiale».
«Lo sanno che non sei capace di scrivere?».
«Oh, mamma».
«Sto scherzando. Ehi, non buttarlo sul divano. Dormirò qui questa notte».
Ci fu un silenzio. Billy posò i libri sulla poltrona. Passò in camera per mettersi dei vecchi jeans in modo da poter continuare il suo lavoro in garage.
Lei bevve un caffè. Era freddo. Quella sera avrebbe usato il divano. Se non fosse servito...
Guardarono la televisione. Billy era andato ad acquistare latte e crackers al formaggio, che mangiarono tutti. Carlotta aveva spogliato e messo a letto le bambine.
Verso le 11,30 si era coricata sul divano e si era avvolta nella coperta. Billy non fece commenti, ma lasciò aperta la porta della sua camera. Carlotta giaceva immobile, meditando sulle due ultime notti. Col passare del tempo, diveniva sempre più preoccupata. Per i rumori della casa, per la vista insolita di lontane luci di automobili e che si rivelavano distorte nei rettangoli sopra il corridoio. Non poteva dormire. Poi constatò che il divano le faceva male alla schiena. Qualsiasi posizione era disturbata da un bottone o da un bernoccolo; non esisteva una superficie piatta e dura. I muscoli erano contratti in qualunque modo si sistemasse. Infine si voltò sulla destra, fissando l'oscurità.
Alle due e trenta circa doveva essere mezzo addormentata, perché si svegliò di scatto. Si trattava del ventilatore. Un lievissimo ping quando il termostato si staccava. Ascoltò attentamente. Nulla. Poteva percepire i bambini respirare nelle altre stanze. Dall'esterno non arrivava nessun rumore.
Chiuse gli occhi, ma non poté dormire. Lentamente si lasciò scivolare in uno stato di semincoscienza, in una consapevolezza di immagini vaghe che si facevano strada nel caos che turbinava nella retina. Alla fine si addormentò.
Per tutto il giorno seguente, sabato, un leggero ottimismo parve prendere corpo. Non accadde nulla di insolito. Eccetto che per un doloretto alla schiena, Carlotta era di buon umore. Accompagnò tutti al Griffith Park, parecchi acri di colline boscose che, a Los Angeles, passavano per landa. Con tutte le famiglie lì intorno, Carlotta sentì ancora una volta di essere parte della razza umana, facendo quello che tutti facevano, sentendo quello che tutti sentivano. Persino i figli sembravano di umore particolarmente vivace. Billy inventò un gioco con la palla a cui dedicarsi. Ritornarono esausti, a pomeriggio inoltrato.
Anche la domenica trascorse in modo normale. Carlotta fece pulizia, eccetto che nella sua camera. Billy era fuori ad occuparsi di meccanica, costruzioni, scomposizioni, o chissà che. Le bambine guardavano la televisione. Carlotta si esercitò in stenografia. Era noioso, ma necessario. Così passarono le ore. Fu un giorno normale. Anche la sera non accadde nulla di insolito.
Col lunedì, però, lo stato d'animo cambiò. Mr. Reisz, il professore di stenodattilografia, incredibilmente magro ed esigente, richiamò l'attenzione sui risultati di Carlotta. La precisione e la velocità stavano calando. Lei non l'aveva nemmeno notato. La cosa la seccava, perché prima andava bene. Che cosa sarebbe successo se non fosse riuscita a diventare segretaria? Se quella si fosse rivelata una strada ben più difficile di quanto si era immaginato? Stava per essere invischiata in una specie di fallimento, una sorta di trappola per frustrarla. C'era qualche cosa nel suo temperamento? Improvvisamente la disturbò il piccolo problema della precisione e della velocità. Improvvisamente ebbe timore di non possedere la capacità di lavorare con successo.
Quando la sera entrò in casa i bambini erano in condizioni disastrose. La tensione era quasi palpabile, ma nessuno era in grado di dire perché. Julie e Kim stavano sul pavimento. In retrospettiva, tutto aveva qualche incredibile, inquietante significato, ma al momento non fece particolare impressione su Carlotta.
«Julie mi ha picchiato col portacenere», piagnucolò Kim.
«Non è vero!».
«Sì, è vero!».
«Non è vero!».
«Sta' zitta», ammonì Carlotta. «Fammi vedere».
Non c'erano dubbi. Un segnaccio rosso stava comparendo sul collo della bambina.
«Vedi? Me lo ha buttato in testa!».
Ma Julie si protestava innocente. Carlotta sapeva, come lo sanno le madri, che la figlia diceva la verità.
«Non guardare me», interloquì Billy. «Che cosa credi, che mi diverta a picchiare le bambine con dei portacenere?».
«Va bene. Va bene», la tranquillizzò Carlotta. «Urliamo pure l'una contro l'altra. Sentite. Mamma non è dell'umore adatto per affrontare queste cose, perciò il silenzio per un po' è l'idea migliore. D'accordo?».
Prese corpo un silenzio imbronciato.
«Ebbene, non l'ho fatto», borbottò Billy.
Due giornate senza problemi durante la notte. Ma su quel divano, la sua schiena stava andando a pezzi. Carlotta detestava i medici, per lei erano sempre portatori di altri dolori. Inoltre, con una buona notte di sonno su un buon materasso, si sarebbe messa a posto. Non era la prima volta. Carlotta aprì la porta della sua camera e fece capolino.
L'enorme letto con i suoi pesanti intagli ed i ridicoli angeli di stile europeo, aveva un aspetto sinistro, una sorta di aria beffarda e sogghignante. Le coperte e le lenzuola erano sul pavimento ancora dall'ultima volta in cui vi aveva dormito. Con leggera trepidazione, entrò nella camera. Non si sentiva nessun odore. Non c'era nulla fuori posto tranne le lenzuola. Disfece il letto e lo rifece.
Erano le 11,10 di sera. Aveva bisogno di riposare. Aveva bisogno di migliorare il rendimento a scuola. Aveva bisogno di far buona figura con Mr. Reisz. Doveva mostrare a se stessa di essere ritornata sulla giusta via. Scivolò fra le lenzuola fresche e ben tese e chiuse gli occhi.
Il tempo trascorreva molto lentamente. Il corpo si sentiva confortato dal materasso duro. Si sentiva sostenuto ed appagato. Tuttavia sonnecchiò a sbalzi. Gli occhi rimanevano aperti. Aveva lasciato spalancata la porta che dava sul corridoio. Sapeva che Billy aveva lasciato anche lui aperta quella della sua camera. Non si poteva mai sapere.
Era ormai quasi mezzanotte. La lucina del quadrante dell'orologio si era spenta. Da sola? Carlotta scrutò l'oscurità. Perché ormai si era svegliata. Rimase in ascolto.
Nulla. Fissò nel buio. Poteva distinguere vagamente la sagoma del cassettone, lo specchio e l'immagine del letto.
Respirò profondamente. Non c'era nulla. Non si avvertiva nessun odore. Non c'era niente fuori posto. Allora perché si era svegliata? Poi ebbe una sensazione, una specie di impressione. Che qualche cosa stesse arrivando. Stesse arrivando da molte miglia di distanza sopra un paesaggio disastrato e che sarebbe stato presente in una frazione di secondo. Balzò dal letto.
«Bill!».
Billy schizzò anche lui in piedi. Carlotta si slanciò nel corridoio, infilandosi un vestito e abbottonandosi. Incontrò il figlio accanto alla porta.
«C'è qualcosa in arrivo», annunciò.
Ci fu uno strepito alle sue spalle. Si voltò. La lampadina era caduta dal piedistallo ed esso era sollevato contro la parete. Sbatté la porta dietro di sé.
«Andiamocene!» urlò.
L'intera camera stava crollando per i mobili in movimento. Si udì il tintinnare dello specchio che si frantumava in minuscoli pezzi.
«Mamma...» Billy la fissava, terrorizzato.
«Prendi Kim», urlò lei. «Io penso a Julie».
Corsero nella camera delle bambine. Billy afferrò la piccola e la coperta rimase avvolta intorno alle sue gambe.
«Devo prenderla?» urlò il ragazzo.
Era in preda al panico.
«Sì! Sì! Fuori!».
Qualche cosa, delle scarpe forse? il tavolino della toilette carico di cosmetici? sbatté contro la porta. Mentre correvano lungo il corridoio, lei vide il legno gonfiarsi ed una fenditura formarsi nello scadente materiale.
«Cristo Santo!» esclamò Carlotta.
Si precipitarono nel soggiorno. Sembrava che stessero demolendo la camera, pezzo per pezzo, il più in fretta possibile. Non era un'esplosione, ma come se qualcuno procedesse sistematicamente, una cosa dopo l'altra, con rabbia, sfogandosi sugli oggetti non trovando Carlotta. Improvvisamente le tende, che erano di un buon tessuto pesante, furono strappate come carta ed il rumore si propagò per tutta la casa.
«Maledizione! Maledizione!» gridò lei.
Lacrime di paura e di rabbia le rotolarono lungo le guance. Era arrivata all'ingresso, ma con Julie tra le braccia non riusciva a far scorrere il catenaccio. Si chinò in avanti e puntellò la bambina contro la porta. Julie involontariamente piagnucolò dal dolore, però Carlotta ebbe la possibilità di tirare il chiavistello. Qualcosa colpì l'anta della camera e si fracassò.
«TROIA!» ruggì una voce.
Corsero nella notte ed arrivarono all'auto. Dietro di loro sembrava che la camera o almeno ciò che restava di essa, stesse per essere distrutta. Come se una squadra di demolitori l'avesse attaccata. Carlotta fece marcia indietro, urtò la siepe di qualcuno, si riprese, fece vorticare a vuoto le ruote ed infilò, stridendo e ruggendo, la Kentner Street.
«Accidenti, hai sentito, Billy?».
Lui non rispose. Sembrava pietrificato. Carlotta si voltò verso di lui.
«Non hai sentito?».
«Se-e, mamma, se-e».
Il figlio la stava guardando. Stranamente, le pareva. Gli occhi erano lucidi di lacrime.
Carlotta attraversò col rosso e superò un incrocio deserto. In giro non c'era un'anima. Guidò senza pensare attraverso un labirinto di strade, oltre le case buie tutte uguali.
«Rallenta, mamma», suggerì Billy. «Stai andando a novanta».
Carlotta guardò il contachilometri, poi sollevò leggermente il piede dall'acceleratore. Il panico l'aveva resa incapace di controllarsi. Agiva smarrita, per puro istinto, come un animale spaventato.
«Dove diavolo siamo?» chiese.
«Nei paraggi della Colorado Avenue», precisò il ragazzo. «È laggiù, dietro la fabbrica».
Per istinto si diresse in quella direzione. Rallentò ancora fino a sessanta all'ora.
«Ascoltate, ragazzi», esordì, dominando l'isterismo della voce. «Andrà tutto bene. Avete capito? Voi come state?»
Si voltò e da sopra la spalla vide Julie sul sedile posteriore. Taceva. Appariva sofferente, spaventata e silenziosa. Sul sedile anteriore, ancora avvolta nella coperta, Kim ansimava, troppo irrigidita anche per piangere. Con un lampo di divertimento, pur fra il panico, notò che il ragazzo era in mutande.
«È meglio che ti avvolga nella coperta, Bill. Stiamo andando da Cindy».
Risalì la Colorado e voltò a nord. Guidava ormai alla velocità consentita, verso le luci vivide dei cinema e dei motel, il che significava verso West Hollywood.
«Dove diavolo...»
«Gira a sinistra», suggerì Billy, mentre si stringeva nella coperta. «È quasi la stessa strada per Hollywood».
Miracolosamente, come se andasse da sola, l'auto trovò la via giusta in paraggi familiari, bui, modesti, affollati di casette ormai respinte dai grandi caseggiati ad appartamenti.
«Eccoci», annunciò Billy.
Carlotta si arrestò davanti ad un enorme palazzo rosa. Sulla facciata c'era scritto El Escobar. Era la sola cosa che lo distinguesse dalle altre costruzioni che si affacciavano sulla strada. I globi rossi e blu che, secondo qualcuno, rappresentavano un'illuminazione esotica, rendevano le palme spettrali e malaticce.
Salirono le scale, mentre Billy teneva la coperta per non inciampare.
«Ascoltate», ammonì Carlotta. «Lasciate che sia io a parlare. Qualsiasi cosa dica su quanto è accaduto. Se qualcuno vi chiede notizie quando non sono presente, ripetete la stessa cosa».
«Certo, mamma», ribatté Billy.
Carlotta premette il campanello. Pensò che stavano per fare una ridicola impressione. Il suono, quello di un cicalino, parve tagliare la notte. Però nessuno venne ad aprire. Suonò di nuovo. E se non rispondevano? Poi una mano spostò lentamente le tendine di una finestra. Immediatamente la porta si aprì.
«Carlotta!» esclamò una voce. «Billy. Che cosa...»
«Oh, Cindy!».
«Non strillare, tesoro. Entra. Entrate tutti».
Era in accappatoio, coi capelli tirati in enormi riccioli, ma a Carlotta sembrò bella. Soprattutto in quel momento, nel minuscolo appartamento, col tappeto color oro ormai logoro ai bordi, le pareti già screpolate dopo due anni, le banali sedie ed il comune tavolo di cucina, proprio il tipo di abitazione moltiplicata decine di migliaia di volte per tutta la città. Tuttavia, apparve a Carlotta come il luogo più desiderabile e benedetto.
«Che cosa è successo?» chiese Cindy, «un incendio?»
«No. Siamo... siamo stati buttati fuori di casa».
«Buttati fuori? E da chi?».
«Abbiamo dovuto andarcene, ecco tutto...»
«Avete dovuto... Non afferro. Che cosa è successo?» Kim e Julie si misero a piangere.
«Ehi, bambine», continuò Cindy. «Volete stare qui, non è vero? Ma certo».
Si alzò dalla sedia, si diresse verso l'armadio a muro del corridoio e ritornò con una bracciata di coperte e qualche cuscino. Dalla soglia Carlotta captò il russare imbronciato di George, il marito. Miracolosamente, quanto era successo non l'aveva svegliato.
«Grazie», mormorò. «Non so che avrei fatto...»
«Per che cosa ci sono gli amici?» commentò Cindy.
Sistemò le bambine sul divano con due coperte. Billy si raggomitolò vicino su alcuni enormi cuscini. Cindy sussurrò a Carlotta.
«C'entra un uomo? Si tratta di Jerry, vero?».
«No, no. È fuori città per altre sei settimane».
«Vuoi raccontarmelo da sola? Quando i ragazzi saranno usciti?».
«Sì. Preferirei».
Cindy rimboccò le coperte alle bambine. Carlotta si sfilò il vestito e si sdraiò sul pavimento.
«Pensi di riuscire a stare lì?».
«In realtà è la cosa migliore per la mia schiena».
«Va bene. Sentite, voi. Il bagno è qui. Andateci se volete».
«Che Dio ti benedica», disse Carlotta. «Mi spiace...»
«Stupidaggini. Ne parleremo domattina».
«Buonanotte», disse Julie. Era assurdo. Come se fosse al campeggio, preoccupata di essere educata, senza sapere il perché si trovasse lì.
«Buonanotte, bambolina», ricambiò Cindy. «Ora ci mettiamo tutti a dormire».
«Buonanotte», aggiunse Carlotta.
Attraverso le sottili pareti sentì Cindy dire qualcosa a George. Questi borbottò un attimo, ma lei lo zittì subito. Nella quiete dell'appartamento, Billy era già addormentato. Altrettanto le bambine. Il panico stava abbandonando Carlotta. Si sentiva prosciugare l'energia ad ogni minuto che passava. Poi le lacrime cominciarono a gonfiarle gli occhi. Lacrime di spossatezza, di frustrazione, di paura. Piangeva, ma silenziosamente. Infine la crisi passò. Era troppo stanca anche solo per piangere o per pensare. Si addormentò. Dormirono tutti. Senza sogni.
3
La luce del sole illuminava delle margherite sul tavolo di cucina e le rendeva lucide. Cindy sedeva perplessa.
«Veramente hai visto queste cose venire attraverso il muro?».
«Non le ho viste», precisò Carlotta. «Le ho sentite. Le ho intuite».
«Questi animali?».
«Non so che cosa siano».
«Allora che cosa fanno?».
«Non molto», mentì Carlotta. «Si limitano, capisci, a camminare dappertutto, cercano di toccarmi...»
«Gesù».
«Graffiano il muro. Buttano le cose per aria».
«Sei sicura di essere stata sveglia?».
«Cindy, lo giuro. Ero sveglia come lo sono adesso. Non credi che ci abbia pensato migliaia di volte? Ero assolutamente sveglia. Sudavo dalla paura, con gli occhi stralunati, ben sveglia».
Cindy scosse il capo e fischiò.
«Da quando dura questa faccenda?».
«Quasi una settimana. È accaduto due volte; poi è cominciato di nuovo ieri sera ed allora sono scappata. Ho preso i ragazzi e sono corsa via. Proprio non potevo trattenermi un attimo di più».
«Non ti biasimo», commentò Cindy.
Questa aggrottò le sopracciglia immersa in pensieri.
«Ebbene», dichiarò alla fine, «non sei matta. Ti conosco bene. Se eri spaventata, c'è stata una ragione. Sei una delle persone più equilibrate che conosca».
«Allora che cosa pensi che sia?» chiese Carlotta. Cindy rimase a fissare la tazza del caffè e non disse nulla per molto tempo. Poi alzò lo sguardo.
«Jerry».
«Che cosa?».
«È Jerry. È lui alla base della cosa, come è vero che sono seduta di fronte a te», sentenziò.
Carlotta aspirò il fumo della sigaretta. Sullo schermo della televisione un presentatore sorrideva ad un pubblico di donne di mezza età del Midwest, ma con l'audio basso, era soltanto una presenza blu che tremolava, assurda, stravagante ed insignificante.
«Non ci credi, vero?».
«No».
«Senti. Quando qualcuno cede è per qualche problema di fondo. Voglio dire, non è che si decida che mercoledì è il giorno buono per avere una crisi, non ti pare?».
«Non so».
«Naturalmente no. È sempre qualche cosa di importante, qualche cosa di fondamentale della vita, qualcosa che ti consuma».
Carlotta lanciò un'occhiata furtiva alla minuscola televisione. Poi ritornò a Cindy.
«Che cosa esattamente stai cercando di dire?».
Come se fosse stato fatto un segnale per la rivelazione della filosofia della vita, Cindy si curvò in avanti e si mise a parlare rapidamente e con energia.
«Tu soffri e non lo sai. Hai cercato di non prenderne atto. Hai finto che tutto fosse beilo e splendido, quando invece non lo è. E Jerry è alla base di tutto».
«Non vedo la connessione...»
«È naturale che tu non la veda. Non è mai diretta. Pensa a mia zia, quella che è impazzita. Quale connessione c'era fra la presenza dell'FBI nel soggiorno ed il suo reale problema? Nessuna. Il suo problema era l'essere stata respinta dalla figlia, Jewel, quella fetente. La stupida era scappata con un pittore, viveva tra le immondizie e chiedeva denaro. Minacciava il suicidio se non l'avesse ottenuto. La solita squallida faccenda. Ha fatto impazzire mia zia. Ma vedi, non c'era una connessione diretta. È sempre indiretta, come girare l'angolo. Devi sforzarti di vedere il vero problema. Devi sapere che cosa realmente sta succedendo in te».
«Come si collega ciò che accade dentro di me, con Jerry?».
«Ti vuole sposare, non è così?».
«Non sono in grado di dirlo, Cindy. La nostra relazione non è mai stata così... definita. Sai, ci siamo divertiti. Ci piace stare insieme. Non so se Jerry desideri sposarsi. Ma tutto sommato siamo più uniti di quanto all'inizio pensavamo di poterlo diventare».
«Sì, ma divertirsi è una cosa. Essere sposati è un'altra».
Carlotta sospirò debolmente.
«Dovresti fare la psichiatra».
Cindy era raggiante.
«Lo so. È la ragione per cui leggo molto», convenne. «Senti. Non aver paura. Queste decisioni ad un certo momento maturano. Se sei intelligente, vengono prese nella maniera giusta».
«Ebbene», ammise Carlotta, «forse è una buona cosa mettere tutto allo scoperto. Onestamente non ho mai impostato la cosa secondo questo punto di vista. Voglio dire, capisci, che può darsi tu abbia ragione».
Cindy posò una mano sul braccio dell'amica. Con sorpresa scoprì che era caldo, quasi sudato. Un'ondata di compassione le colmò il cuore.
«Pensaci sopra. Non esiste problema che non si possa affrontare. Soltanto, sii onesta con te stessa».
«Va bene. Mi sembra qualche cosa di molto remoto, ma ci penserò».
«Tutto andrà bene», profetizzò Cindy.
Sullo schermo televisivo un uomo ben vestito stava dietro ad un leggio. Sembrava che stesse vendendo qualcosa col suo sorriso radioso, poi alzò un'enorme Bibbia e la presentò alla telecamera. A Carlotta parve che la spingesse verso di lei.
Durante la notte Carlotta si svegliò. Le ossa le dolevano. Aveva l'emicrania. Dove si trovava? George russava leggermente nella stanza vicina. I fari delle automobili sciabolavano la parete del soggiorno. Billy, con i capelli che gli cadevano sugli occhi, le riparava il volto. Le bambine dormivano all'ombra. Dei pensieri le turbinavano nella mente: come sono arrivata a dormire sul pavimento di Cindy? Sì, ricordo. Sto ancora soffrendo. Che cosa succede in me? Al di fuori di me? Che cosa sono ora?
Però ormai si trovava al sicuro. Era impossibile che qualche cosa potesse accadere lì. C'era troppa gente. Cindy sarebbe venuta a salvarla. Mentre George dormiva. Tutti tranne George avrebbero potuto testimoniare. Testimoniare sulla follia di Carlotta. Si vide circondata da medici in un lungo corridoio, a lottare, a strillare. Era così? Quando si supera il limite, si è ancora se stessi? Si sa il proprio nome? Che cosa si è, allora?
Così le immagini delle ultime notti danzavano nel cervello: le luci intermittenti, il sapore del cotone che le riempiva la bocca, la sensazione opprimente di... di... quel.. quel... Carlotta non riusciva ad andare oltre. Non era né sogno né realtà. E chi in quella casa, chi nell'intera città di Los Angeles, poteva dirle di che cosa si trattasse?
Il giorno seguente trascorse piacevolmente. Carlotta marinò la scuola ed invece andò con Cindy a far spese. L'amica acquistò una borsetta di pelle in Olivera Street, dove gli artigiani messicani rallegravano l'antica strada pavimentata a ciottoli, con festoni di piñatas e terraglia colorata. Tornarono a casa e giocarono a carte finché arrivò l'ora per Carlotta di intraprendere il lungo viaggio sino a West Los Angeles a prendere i figli. Tutto sommato, un giorno piacevole. Rilassante. Il sole autunnale le aveva giovato, quasi come una terapia. L'aria limpida, fresca, le urla dei bambini, la festosa musica messicana avevano data nuova allegria. Esisteva soltanto una piccola area buia in fondo alla mente, della quale nessuna delle due parlò.
Al sopraggiungere della notte Cindy vide una personalità nuova apparirle davanti. Carlotta divenne nervosa, Impaurita. Aveva qualcos'altro in testa? Che cosa vedeva nel buio? Cindy se lo chiedeva.
Infine George arrivò a casa. La sua camicia aveva delle chiazze sotto le ascelle. Esitò quando vide Carlotta. Poi senza una parola si diresse verso il bagno. Si udì uno scroscio e poi la doccia cominciò a rumoreggiare. Furiosamente.
«Ce l'ha con me?» sussurrò Carlotta.
«No, lui è così», rispose Cindy.
«Senti. Se do disturbo...»
«Per niente».
«Voglio dire...»
«Mi piace la tua compagnia. Rimani quanto vuoi».
«Mi pare che George...».
«Non farci caso. È nato così».
Cindy colse il momento. Indicò la porta con un cenno impercettibile del capo. Carlotta era perplessa.
«Devo parlarti. Usciamo».
Chiusero la porta dietro di loro.
Cindy guardò l'amica negli occhi.
«C'è qualcosa che non mi hai detto. Di che cosa si tratta?».
«Ti ho raccontato tutto».
Cindy notò lo sguardo evasivo di Carlotta. Qualsiasi cosa stesse nascondendo, aveva presa su di lei. Quanto a fondo ci si può spingere con gli amici?
«La sola cosa che voglio, Carly», continuò Cindy, «è vederti riprendere animo. Ci credi?».
«Naturalmente».
«Se non vuoi che ti aiuti, non posso farlo».
«Sinceramente. Sono stata franca con te».
Tuttavia gli occhi di Carlotta nascondevano una verità oscura, evasiva e se Cindy intendeva scoprirla doveva indagare a fondo.
Spinse l'amica fino alla cascata gorgogliante pompata sopra le rocce, ad imitazione hawaiana. Sui tetti dietro l'edificio correvano soffiando due gatti attraverso le tegole rosse. Il sole stava calando e attraverso la foschia appariva come una lontana palla arancione; Callotta rabbrividì per il freddo strano ed improvviso.
«Ti droghi?» chiese Cindy sottovoce, timorosa.
«Drogarmi? Io? Santo cielo, no!».
Cindy la fissò negli occhi. Li scrutò a fondo.
«Cerumi si drogano e vedono delle cose», spiegò. «Anche se non lo vogliono, a volte».
«Che Dio mi sia testimone, Cindy. Mai toccato qualcosa del genere».
«Franklin Moran era un tossicomane».
Carlotta si bloccò. Il ricordo di un volto irregolare e scabro con la sua smorfia infantile la colpì. Quello e le notti bizzarre e malate, seguite dalle mattine dolci e tristi...
«Ma io no», replicò sottovoce. «Non ho mai toccato roba del genere. Quella sera ci fu tra noi una cosa. La prima cosa», aggiunse con un tocco di amarezza.
Cindy esitava.
«Allora cos'è?».
«Non è nulla. Voglio dire che non mi sento di parlarne».
«Non ho intenzione di forzarti, Carlotta, ma non puoi nascondere questa cosa, altrimenti ti distruggerà».
Improvvisamente alzò lo sguardo. Aveva tentato di accendere la sigaretta, ma la brezza fredda spegneva cerino dopo cerino. C'erano delle lacrime nei suoi occhi.
«Sono stata violentata», confessò.
La mano di Cindy andò istintivamente alla bocca. Era sbalordita.
«Violentata». Carlotta cercò di dirlo di nuovo, con la sigaretta che le tremava nella bocca, ma la parola uscì quasi inintelligibile.
«Buon Dio», sussurrò l'amica.
Carlotta si allontanò. L'avrebbe mai abbandonata la sensazione di essere rovinata? Ancora una volta si sentì sporca dalla testa ai piedi, avvoltolata nella melma e senza la possibilità di ripulirsi.
«Buon Dio», era tutto ciò che Cindy riusciva a dire. Poi anche nei suoi occhi brillarono le lacrime. Allungò il braccio per appoggiarlo dolcemente sulla spalla di Carlotta. Le due donne si abbracciarono. «Mi dispiace, non sapevo, non lo immaginavo assolutamente... oh, bambina mia!» fu tutto quanto Cindy riuscì a dire.
Carlotta piangeva. «È stato... mi sento come... rovinata... completamente rovinata dentro...».
«Bambina, bambina,... oh, mio Dio! Come è potuto accadere?»
«Ero sola in camera mia e qualche cosa mi ha afferrato... mi ha soffocato... sono quasi svenuta... la vista mi si è annebbiata...».
Carlotta si staccò da Cindy. Avvertiva un freddo crescente. La brezza della sera le soffiava tra i capelli e glieli scompigliava leggermente. Gli occhi scuri erano divenuti improvvisamente lontani e freddi.
«Tu non capisci, vero?» chiese Carlotta.
«Naturalmente, io...».
«Non ero coricata con la cosa venuta attraverso la parete».
Cindy la fissò.
«Di che cosa stai parlando, in nome di Dio?» sussurrò.
«Non capisci? C'era e non c'era... sono stata violentata e picchiata, ma lì non c'era nessuno... quasi sono morta e quando hanno acceso la luce mi sono trovata completamente sola».
Per l'amica era arduo capire.
Infine mormorò: «Hai chiamato la polizia?»
«Cindy, Cindy, buona, semplice Cindy! Ero sola nel mio letto... quando loro hanno acceso la luce. Quell'uomo... o chiunque sia stato, di qualsiasi cosa si tratti... era svanita... sparita... semplicemente se ne è andata come un brutto sogno...»
La mano di Cindy rimase immobile alla gola, nella posa di qualcuno che non può capire il punto più semplice dello straordinario fenomeno persino quando ne sta udendo la descrizione.
«Non capisco», mormorò. «Sei stata... assalita, o non sei stata assalita...».
«Certo che lo sono stata. Mi ha anche picchiata. Mi ha quasi strangolata. Poi mi ha usata... terribile. E quando la luce si è accesa è svanito... proprio come se non ci fosse mai stato».
Cindy si appoggiò alla cancellata. Capì che Carlotta stava dicendo la verità. Lo testimoniava la maniera in cui teneva gli occhi fissi, col volto grazioso nascosto per la vergogna e l'umiliazione al ricordo dell'aggressione, tuttora bruciante. Per di più una paura folle le riempiva gli occhi. Carlotta si voltò verso Cindy.
«Vedi? Vedi?» implorò. «Non c'è una spiegazione. È vero e non è vero. È accaduto e non è accaduto. Sono svenuta, sono svenuta, Cindy! Due volte!»
«È accaduto ancora?».
«La sera dopo. Per che cosa credi che sia scappata come una pazza quando stava per cominciare la terza volta?».
«Ma ora, che sei qui con me...».
«Tutto va bene qui con te. Ma non sono in grado di dire quanto durerà. Ho paura a tornare a casa. Ho paura di ritrovarmi sola».
«È naturale», convenne Cindy. Ma era disorientata. «Non ti biasimo».
Per lungo tempo nessuna delle due parlò. Anche se faceva freddo, rimasero in piedi e in silenzio. La notte quasi blu era illuminata dai globi rossi e verdi tra le palme. Carlotta rabbrividì. Cindy, solitamente così efficiente e pronta, era perduta nei labirinti complicati del pensiero. Non c'era proprio modo di uscirne. Buio assoluto.
«Allora rimarrai qui», dichiarò alla fine. «Per tutto il tempo che riterrai necessario».
Carlotta annuì. Fissò assorta nel vuoto, tentando di fermare la mente sul problema. Si soffiò il naso in un minuscolo fazzoletto. Si lisciò i capelli scompigliati dalla brezza.
«Secondo me», suggerì Cindy, «dovresti farti vedere da uno psichiatra».
«Non me lo posso permettere».
«Puoi rivolgerti ad un ospedale».
«Non per problemi mentali».
«Sei assolutamente in errore. Puoi recarti in una clinica universitaria. Il pagamento è facoltativo e se sei assistita è addirittura zero».
Carlotta annuì, sorridendo.
«Sei convinta che sia pazza?» chiese.
«Non lo so. Ma sono spaventata».
«D'accordo. Rientriamo?».
Cindy annuì. Si tennero per mano mentre si dirigevano verso l'appartamento, poi si lasciarono nell'entrare.
«Non parlarne a George», raccomandò Cindy. «È un tantino limitato nelle sue vedute».
«Non l'avrei detto a nessuno tranne che a te», sussurrò Carlotta di rimando.
«D'accordo. Sorridi. Eccoci».
Aprì la porta. Billy e le bambine alzarono lo sguardo. Erano sospettosi, pensò Carlotta scrutando i loro volti in cerca di segni nascosti. Sembravano sapere istintivamente quanto lei fosse coinvolta in quell'...orrore... come se potessero leggerle nella mente. Alla fine ritornarono al gioco degli anagrammi steso sul tavolo di cucina. George entrò con un giornale piegato, lanciò uno sguardo breve a Carlotta poi a Cindy.
«È possibile mangiare in questa casa?» chiese.
«Solo un minuto», rispose la moglie.
«Maledizione», borbottò lui di converso.
Giocherellò un poco col bottone della televisione. Billy lasciò cadere sul pavimento parecchi pezzi dell'anagramma. Carlotta frugò nella borsetta, si sedette e finse di leggere. Come tutte le volte che ne parlava o ne pensava, il fatto era di nuovo presente, dominava la sua vita, il suo mondo intero, come una nebbia che l'avvolgesse. Malevola. Puzzolente. Il canticchiare di Cindy in cucina era l'unico suono confortante.
Passò il giovedì ed anche il venerdì. Un leggero odore di ozono riempì l'aria della sera. E depresse Carlotta.
Julie e Kim erano coricate sul divano. Billy dormiva contro la parete accanto all'apparecchio televisivo. La mattina George borbottava mentre scavalcava il ragazzo. La cena fu silenziosa ed il malumore serpeggiava nell'aria. George spalava i piselli con la forchetta e li schiacciava col coltello.
Carlotta non andò dallo psichiatra. Il problema diveniva più remoto. Il mondo si stava ricomponendo in qualche cosa di meno terrificante, di più amichevole. Fisicamente si sentiva bene. Dormire sul pavimento le giovava alla schiena. Essere con Cindy era bello. Rimetteva a posto le cose.
Durante il giorno sedeva rigida dietro un'enorme macchina per scrivere alla Carter School of Secretarial Arts. L'alto, dinoccolato Mr. Reisz, la cui capigliatura era divenuta più rada dai lontani, perduti giorni della giovinezza, camminava su e giù fra i tavoli con un cronometro in mano. La stanza rimbombava per il fracasso di quaranta macchine per scrivere in febbrile attività.
«E... stop!». Gridò Mr. Reisz. «Trenta parole. Chi ha battuto trenta parole al minuto? Trentacinque? Eccellente. Quaranta. Qualcun altro ha battuto quaranta parole?».
Carlotta alzò la mano. Mr. Reisz si avvicinò. Studiò il risultato.
«Attenzione alle maiuscole», ammonì. «Decise. Sono battute decise e nette...».
Dall'altra parte, una ragazza rispose per l'amica.
«Juanita», disse. «Anche Juanita ha battuto quaranta parole, professore».
Mr. Reisz si mise dietro la macchina per scrivere. Si accigliò.
«Le dica che il mignolo è ancora debole», sentenziò. «Non pieghi il polso. Dia un colpo breve e secco».
L'ammonimento venne tradotto in spagnolo. Mr. Reisz ritornò alla cattedra. La scuola era sotto il controllo della contea di Los Angeles. La maggior parte delle allieve, un vivace gruppo portato alle risatine soffocate, era aiutato dall'assistenza e parecchie di nuovo incinte.
Carlotta guardò fuori della finestra. Alcuni adolescenti sparuti saltellavano giocando a pallacanestro nel cottile attiguo. I loro volti erano lucidi di sudore. Era una giornata indolente, calda e odorava di vecchio e di un leggero aroma di muffa. Una polvere fine filtrava da non si sa dove sui tavoli e le finestre.
Che bella vita, pensò Carlotta. Chi avrebbe immaginato che la figlia di un pastore di Pasadena si sarebbe trovata a pestare felicemente lettere maiuscole per il comitato di assistenza sociale? Eppure era felice. Le piacevano le ragazze, l'angoloso Mr. Reisz, così assurdamente formale e tuttavia comprensivo, e le piaceva anche migliorarsi, volta per volta. In fin dei conti, pensò, sono le semplici cose di tutti i giorni che rendono godibile la vita. Le cose in cui aveva creduto Bob Garrett e che le aveva insegnato. I piccoli particolari che possono abbellire un ricco e pieno modo di vivere.
L'incubo dell'ultima settimana si trasformò in un impercettibile nube sempre più evanescente e nello stesso modo qualsiasi idea sulla necessità di uno psichiatra.
Carlotta li temeva. Chi si rivolgeva ad essi non guariva mai. Con Cindy si sentiva al sicuro. Era arroccata in una fortezza con mura spesse alcuni metri. Aveva il tempo di meditare con calma e profondamente di ricostruire il passato. Era immersa nella vasca da bagno ed una luce morbida filtrava fra le piante ornamentali alla finestra, gettando raggi freddi sulla schiuma scintillante.
In che condizioni era la sua casa? Avrebbe anche potuto essere una rovina carbonizzata, con solamente la tazza del water closet e il frigorifero che sporgevano dalle macerie annerite. Immaginava Mr. Greenspan precipitarsi in mutande, mentre tentava di guidare i pompieri. Una vera folla osservava immobile mattoni e tubi che volano nell'aria. Tuttavia i suoi pensieri le apparivano incredibili. Come qualcosa che una mente malata potesse evocare nel corso di uno dei peggiori attacchi. Il mondo non era così. Carlotta si sentiva come un gigantesco uccello, che volteggiava e volteggiava, avvicinandosi lentamente alla terra ancora una volta. Ormai tutto era di nuovo a fuoco, di nuovo il mondo era reale e non sconvolto da fantasie.
Uscì dalla vasca e si asciugò le spalle con un enorme asciugamano giallo. La fronte era aggrottata, pensosa: doveva scoprire. Doveva andare a casa. Era meglio aspettare di prelevare Billy alla scuola e passarci insieme? O doveva andarci ora col sole alto? Si infilò reggiseno e mutandine. In camera indossò una camicetta e dei jeans presi in prestito da Cindy. Non aveva indumenti suoi in quella casa e non poteva permettersi di acquistarne.
Si pettinò. Lo specchio rifletteva di nuovo un volto grazioso. La serenità era tornata ad ammorbidire i lineamenti delicati. Si sentì tornare la fiducia. Uscì, con in mano le chiavi dell'auto.
Si fermò appena prima del termine della Kentner Street. L'esterno della casa appariva assolutamente normale. Rimase per un momento a fissarla. Da nessuna parte c'era qualche cosa fuori posto. Scese dall'automobile.
Quando aprì la porta, fu colpita dal calore secco che soffocava le stanze. Era opprimente, pesante e toglieva il respiro. Controllò il termostato. Doveva essere stato spostato la notte della fuga, perché era fermo sui 34 gradi. Lo spense. Tutto era tranquillo. Delle mosche ronzavano intorno ai piatti sporchi nell'acquaio di cucina.
Le ciabatte di Julie erano in corridoio, dove dovevano essere cadute quella notte. Carlotta spiò nella camera delle bambine. Si vedevano soltanto gli orsacchiotti di peluche, qualche libro, della biancheria sulla sedia. Tolse dai cassetti parecchie cose. Lì sembrava ancora più quieto. Non si percepiva neppure il rumore del traffico esterno. Ritornò nel corridoio e fissò la porta chiusa della sua camera.
La studiò. Non mostrava crepe. Non c'erano tracce di bruciature. Proprio nulla. L'aprì lentamente col piede. Le lenzuola erano cadute per terra. La lampada giaceva sul pavimento e lo stelo pendeva. Spalancò la porta. Una bottiglia di acqua di colonia era rovesciata sull'impiantito. La camera odorava di violette.
Varcò la soglia di pochi passi. C'era un tantino più fresco. Le finestre erano aperte. Le aveva lasciate lei così? Il comodino era rovesciato, ed una scalfittura mostrava dove aveva sbattuto contro la parete. Parecchie bottigliette di lozione erano finite dietro il cassettone. Dov'erano l'intonaco scrostato, le pareti lesionate, il soffitto crollato? Sembrava il disordine causato dal panico di una persona. Qualcuno poteva essere schizzato dal letto, sbattendo nel comodino ed inciampando nel cassettone, trascinando inoltre le lenzuola verso la porta. Questo era tutto. Stupita, Carlotta girò lentamente per la stanza.
Sembrava normale. Nel senso che in essa non c'era nulla di inumano. Ricordava chiaramente quanto era accaduto. Avvertì un senso di compassione per la persona spaventata che era stata, per aver reagito in quella maniera. Lentamente chiuse le finestre e le fermò.
Aprì l'anta dell'armadio. All'interno era buio. Non riusciva a trovare la catenina di metallo per accendere la lampadina, così dovette chinarsi in avanti, scrutare nel dedalo di gonne, jeans ed abiti. Scelse qualche cosa e se lo appese con cura al braccio.
Percepì un ringhio lontano.
Si raddrizzò. Ascoltò. Nulla. Si voltò. Nulla. Aguzzò i sensi, fiutò la stanza. Nulla. Attese. Un uccello squittiva dalla siepe all'esterno. Un ragazzo passò in bicicletta. Ritornò con cautela all'armadio. Si udì un rumore vago, come un brontolio basso, metallico che faceva vibrare i vetri della finestra. Carlotta si voltò di scatto e si allontanò dall'armadio. Il rumore si intensificava ed era gutturale. Sembrava che tentasse di articolare, con grande difficoltà, una specie di suono umano. Carlotta indietreggiò fino alla porta, che era chiusa. Tastando nervosamente dietro di sé, trovò la maniglia.
Il ringhio diminuì. Carlotta socchiuse appena il battente e rimase in ascolto. Era nel corridoio? Aveva paura a lasciare la camera. Lentamente richiuse la porta, appoggiandovisi contro, tendendo l'orecchio. Si levò di nuovo un suono basso, rombante, come di rutto, che fluttuava e mutava tono, ma che non aveva senso.
Carlotta corse alla finestra. In alto, sopra la testa, si arcuavano nel cielo due scie bianche di jets invisibili, ma il rombo, come un tuono demenziale che arrivava a far tintinnare i vetri delle finestre, aumentava sempre più.
Guardò l'eterno cielo azzurro. Appariva puro, profondo. Come un riposo infinito. Le scie di condensazione si dissolsero, lasciando flutti soffici che svanivano nel pallido blu senza fine. Il sole era caldo ed amichevole.
Dunque erano stati dei jets. E non una voce. Assolutamente nessuna voce. Ma lei aveva trasformato quel rombo in voce. Stava sognando? O si era appena risvegliata?
Si staccò dalla finestra ed entrò nella camera di Billy. Scelse parecchie magliette, della biancheria, dei jeans e delle camiciole. Portò il fagotto di indumenti in auto e lo gettò sul sedile posteriore. Gli alberi sottili ondeggiavano nella brezza fresca mentre si allontanava.
Quando Carlotta ed i bambini entrarono in casa, si capiva che c'era qualcosa. Invece Cindy disse soltanto: «Hai un aspetto splendido».
«Hai ragione. Mi sento benissimo», convenne Carlotta.
«Magnifico. Magnifico veramente».
Un silenzio imbarazzato era sospeso nell'aria. Cindy sorrise incerta, poi si voltò per pulirsi in un asciugamano che pendeva dallo scolapiatti. Dopo cominciò a grattugiare del formaggio.
Più tardi Biìly chiese: «Mamma, quando torniamo a casa?».
Carlotta finse di non aver sentito, ma il ragazzo insistette.
«Ho della roba nel garage. Non posso lasciarla là per sempre».
«Non è per sempre».
«Allora quando ce ne andiamo?».
La madre sospirò. «Presto».
Quella notte Carlotta guardò supina il soffitto. Una sottile striscia di pulviscolo turbinava in un filo di corrente d'aria, vicino al lampadario di cristallo. Udiva voci soffocate provenire dalla camera. Voltò il capo. C'era ancora la luce accesa, sebbene la porta fosse chiusa.
«Ebbene, perché non glielo hai detto?» si lagnava George.
«Non ce l'ho fatta», gemette Cindy.
«Ti avevo avvertito».
«Non ha nessun posto in cui andare».
Carlotta si alzò su un gomito, sforzandosi di sentire. Ci fu un borbottio indistinto.
«Sssssss», sibilò Cindy.
«Non me ne importa se sente», ribatté George.
Cindy si mise a tirar su col naso.
«Oh, cribbio», mormorò il marito.
«Mi dispiace», gemette lei.
«Gesù».
«Ecco, vedi, non sto piangendo».
Tirò su di nuovo col naso. Lo soffiò. La camera si fece silenziosa. Infine la luce si spense. Carlotta capì che la protezione della casa di Cindy stava per svanire come la rugiada del mattino.
«Sai che cosa devi fare?» chiese George.
«Sì».
«Quando?».
Cindy mormorò qualcosa.
«Quando?» ripeté George.
«Domani. In mattinata».
«Bene, cerca di farlo».
«Oh, George».
«Devo alzarmi alle sette. Qualcuno di noi lavora».
Ci fu silenzio. Carlotta ritornò a sdraiarsi sullo strato di coperte. Guardava il soffitto morsicandosi le labbra. Al diavolo, pensò. Ed ora?
Il sole mattutino si rifrangeva sul parabrezza sudicio, obbligando Carlotta a guardare di traverso le familiari strade di West Los Angeles. Bilìy sedeva silenzioso alla sua destra. Sul sedile posteriore Julie e Kim si agitavano rumorosamente.
«Piantatela», disse da sopra le spalle. «Non litigate».
Emise un sospiro di sollievo quando le lasciò all'angolo della scuola. Sollievo seguito da un lieve senso di colpa per aver portato tanto scompiglio nella loro vita.
Sarebbe arrivata in ritardo a lezione, ma non ne poteva niente. C'era una cosa che prima doveva fare.
Cindy stava stirando quando ritornò a casa. Le prime parole furono forzate ed innaturali. Infine Carlotta disse: «Debbo proprio ringraziarti, per tutto ciò che hai fatto».
«È stato un piacere per me. Lo sai».
«Voglio dire, mi sono fermata una settimana. Francamente non prevedevo che sarebbe durato tanto».
«Senti, magari potessi...».
«Ti sono veramente grata. E non credo che quegli incubi tornino di nuovo. Penso sia arrivato il momento di ripartire. Non credi?».
«Veramente, non so. Se ti senti a posto...».
«Sì. Proprio bene».
«Perché qui sei gradita, lo sai...».
«Lo so. So bene di esserlo. Ma è durato abbastanza. I ragazzi sentono la mancanza della loro casa. Non intendevo traslocare.».
«George, sai, ha i suoi problemi...».
«Lui è stato molto gentile ad ospitarci. Diglielo. Lo apprezziamo veramente».
«Glielo dirò».
Ci fu un altro silenzio. Carlotta evidentemente non voleva alzarsi e mettersi a fare i bagagli. Cindy rimescolò il suo caffè, sebbene ormai dovesse essere freddo.
«Vai a casa?» chiese.
«Credo sia la cosa migliore».
«Non so. Ci ho pensato molto, Carlotta. Forse dovresti lasciarla».
«È impossibile».
«Perché?».
«Ho un contratto d'affitto. Se non lo rispetto, provvederà l'assistenza».
Cindy scosse il capo. «Così sei costretta a rimanerci?».
«Comunque, non credo sia la casa. Penso di essere io».
«Non ne sono sicura. In una settimana qui non è accaduto nulla. Tutto è andato bene».
«Per questo ti ringrazio, Cindy. Mi hai dato la possibilità di riprendere pieno possesso delle facoltà mentali».
Cindy sospirò. «Eppure, sono preoccupata per te...».
«Andrà tutto bene. Anzi. Passerò un paio di giorni con mia madre».
«Tua madre? Carlotta...».
«Certamente. Un paio di giorni a Pasadena. Nella grande casa in cui vive. C'è posto abbondante per i bambini. Julie e Kim non hanno mai conosciuto la nonna».
«Lo so.»
«Solo un paio di giorni. Ricche colazioni nel patio. Sai, quel genere di vita. È tutto ciò di cui ho bisogno».
«Bene. Nessuno lo sa meglio di te».
Cadde di nuovo il silenzio. Ma questa volta Cindy era intenerita. Sapeva bene che cosa significasse Pasadena per l'amica. Si soffiò il naso.
«Mi dispiace, Carlotta. Vorrei proprio...».
«Non ci pensare. Mi è piaciuto moltissimo stare con te e George, ma ora è venuto il momento di andarcene. Ecco tutto».
«Va bene, va bene», ribatté Cindy, guardando lontano, con il mento appoggiato alla mano. Poi continuò distratta: «Va bene, va bene...».
Carlotta si alzò. Guardò la confusione di pigiama presi in prestito e che in quel momento, stesi sul divano, apparivano inverosimilmente sproporzionati. Il pensiero di andarsene la riempiva di terrore.
«Non è il caso di usare una sacca?» chiese Carlotta.
«Sì. È nell'armadio a muro. Vado a prenderla».
Cindy si avviò. L'orologio batté solennemente l'ora. Nessuno parlò più. Carlotta si sentì prendere dallo scoramento.
4
A quindici minuti da Pasadena, Carlotta cominciò a riconoscere le vecchie proprietà, le colline aride con la strana erba brunastra e gli alti muri di cemento coperti di edera. La notte sembrava condensare una specie di nebbia che rendeva evanescenti le case. Mentre l'asfalto sfuggiva sotto le ruote, Carlotta divenne sempre più conscia dell'oscurità che la circondava, come se strada e notte formassero un tunnel davanti a lei.
Dopo la quarta rampa, sapeva che c'era la strada che piegava nell'umido viadotto di cemento, gocciolante di nebbia. Portava, scuro ed angusto, all'Orange Grove Boulevard. Poi la via si allargava e su entrambi i lati sorgevano le case irrazionali, imponenti, dai prati ampi e le palme immense. Sapeva anche, e poteva quasi avvertirlo nell'aria umida, che c'erano le vite amare, i fantasmi avidi ed incerti dai sorrisi elusivi ed ambigui.
Avvertì gli odori, mentre la memoria percorreva le stanze buie, i pesanti tendaggi, i corridoi che portavano dal piano a coda al patio e poi, sull'altro lato, ai giardini pieni di rose. Di notte i rosai odoravano di polvere e spray chimico. Sua madre di sera lavorava in giardino, e con le mani guantate spruzzava veleno bianco sulle piante. Carlotta si chiedeva perché mai aspettasse la sera per curare le rose. Rientrava soltanto quando suo padre ormai russava, un russare lieve, ansimante. Non si coricava mai quando era sveglio. E neppure si parlavano. La loro esistenza era assolutamente silenziosa come la luce lunare che irradiava dalle lumache e dai rovi.
Era a gesti che comunicavano. Gesti secchi, stravaganti, nervosi. Piatti rotti e bicchieri frantumati comunicavano una misteriosa tensione che correva come un fiume per la casa intera. Praticamente, la colpa era di Carlotta. In certo modo, tutte le ombre si curvavano su di lei, il silenzio l'avvolgeva e l'amarezza proclamava in modo non udibile che la colpa era sua.
La porcellana bianca brillava sulla tavola, i piatti di portata di Limoges, le caraffe Waterford, simboli orgogliosi della ricchezza ereditata dalla madre, risplendevano al sole. La domenica mattina era rallegrata dai canti degli uccelli e la gente chiacchierava sul prato. Lei, simile ad un girasole nell'abito giallo di percallina a righe, offriva gli antipasti alle signore su piatti di peltro. Si inchinava, sorrideva, un sorriso affascinante con le fossette e tutti si beavano per ogni suo movimento. Una bambola meccanica. Con la carnagione pallida come porcellana rara, si muoveva in perfetta sintonia con le buone maniere formali e lente, con le risatine delicate, dolci come brezza estiva. E le voci degli uomini? Come un tuono gentile, sonore e distanti, come di dei tra le nubi. Quell'uomo, sembrava impossibile fosse realmente suo padre, apriva la Bibbia e leggeva: «...Tu dovresti avere qualcuno che conforti la tua anima, e si prenda cura teneramente della tua vecchiaia... di chi ti ami...». Una voce musicale, brontolona, profonda e simile a metallo che sfidasse il vento. Era distante da tutti loro e gettava un'ombra timorosa nella luce del sole che avvolgeva ogni cosa. Tutte le domeniche si incontravano, signore e signori in vista, alcuni addirittura famosi o molto ricchi, per interpretare una parte con un rituale di perfetta grazia. Carlotta stentava a crederci. Tutto le appariva falso. Però non osava parlarne.
Una notte era stata svegliata da voci — dalle loro voci — che rimbombavano nella casa. Si era spaventata. Mai simili rumori avevano riempito le immense stanze. Suo padre si era alzato di scatto dalla scrivania gettando il libro nero, il libro mastro dei conti, contro la parete grigia. Oppure a lei? Per quale ragione gridavano? Che cos'era un'ipoteca? Che cos'era la legge sulle responsabilità per quote? Qualcuno aveva agito male. Doveva aver avuto a che fare con quel libro nero. Lui non aveva notato di essere osservato. E lei non intendeva farlo. Era stata svegliata dal rumore. L'aveva picchiata. Sua madre aveva strillato. Due mesi dopo un avvocato era venuto a far visita. Che cos'era un divorzio? Perché sua madre lo voleva e suo padre no? Ma l'avvocato aveva consigliato di rinunciarci. A causa di Carlotta.
Da allora, nulla aveva avuto più senso. Le cose venivano dette e fatte senza scopo, con una rabbia di cui nessuno parlava. Ma il divorzio, di cui continuavano a discuterne in brevi e irosi scoppi sotto gli ombrelloni da sole, inconsapevoli che lei li vedesse e li sentisse dal giardino, quel divorzio non si era materializzato. Rimasero per via di Carlotta. Era l'unica cosa che avessero in comune. In lei, avrebbero esorcizzato la loro inimicizia. Avrebbero trovato una ragione per la loro esistenza. Erano incatenati insieme nella stessa oscurità.
Col passare degli anni, l'aridità aumentò. La madre trasferì il suo letto nella camera in fondo al corridoio. Il padre divenne più magro e calvo, la pelle gli eruppe in esantemi. Si dedicò alla battaglia per un maggiore potere nella chiesa. Il corpo di Carlotta cominciò a cambiare. Fu qualcosa che cercò di ostacolare, ma non c'era nulla che potesse fare. Il petto divenne tenero, i peli presero a crescere dove le gambe si univano e un giorno vide del sangue. Sotterrò le mutandine nel roseto, ma accadde di nuovo e poi di nuovo.
Sola nel suo letto, ascoltando il silenzio della casa vuota, strane sensazioni galleggiavano in lei. Era come se fosse entrato nel suo corpo un amichevole estraneo. La dolce notte di primavera, la luce lunare che si insinuava dalla finestra, carezzavano il mobilio di quercia di stile europeo ed i fiori recisi e li faceva danzare per lei, improbabili figure animali che saltellavano in uno splendore argenteo.
Non fu con la immaginazione che scoprì le curve e le morbide concavità del suo corpo. I suoi sentimenti improvvisamente si focalizzarono quasi dolorosamente e montarono sempre di più, sempre più rapidi, finché, esausta, la luna e le stelle le scoppiarono nella testa in migliaia di frammenti liquefatti. Lentamente riprese fiato, domandandosi che cosa fosse accaduto. Dov'era stata? Che cosa aveva sentito?
Ci fu la sera in cui la zappa della madre si imbatté nelle mutandine incrostate di sporco, con le macchie di sangue seccato. Per una volta li udì parlare in sordina.
La spogliarono e cercarono di metterla nella vasca, ma non riusciva a sopportare che la toccassero e scappò. «Carlotta, volta il viso verso di me...» Di notte, nelle loro camere, discussero del mutamento che si era verificato nel suo corpo, ma era disgustoso sentirne parlare dalle loro bocche. Il tocco della mano del padre per lei divenne qualcosa di freddo e di repulsivo.
Improvvisamente presero ad osservarla. C'era addirittura qualcosa di osceno nella maniera in cui la guardarono. Per che ragione la studiavano tanto?
Quando raggiunse i quattordici anni si sentì come una femmina stipata nel corpo di una bambina. L'avevano costretta in una forma differente. Scappò. La riportarono a casa. Pregarono per lei, la minacciarono, le parlarono del gran male che aveva dentro, delle ragioni per cui fuggiva.
Le facevano dei regali, ma infantili. Una casa da bambole con figure e mobili minuscoli, animali dalle orecchie molli e fatti di stoffa. Un mondo di finzione. Volevano che rimanesse bambina, il cui fascino ed intelligenza avrebbero tenuto distante il desiderio che l'aveva invasa. Non sarebbe mai stata rovinata, mai tormentata, mai costretta a vivere un'esistenza infernale a causa di quelle sensazioni...
Quelle sensazioni che l'agitavano al tramonto, insieme alle sue amiche, mentre ascoltava per radio una musica dolce e le onde rilucevano sulla spiaggia. Quelle sensazioni vennero paralizzate, si trasformarono in voci ronzanti e ciascuna si mutava in un'immagine. Desiderava vivere, ma era costretta nella loro armatura. Poteva quasi gustare la vita, tutta intorno a sé, così vicina, eppure così disperatamente lontana.
L'istinto la conduceva ai ragazzi, a ragazzoni robusti maggiori di lei. Soltanto loro avevano il coraggio di strapparla alla ragnatela che i suoi genitori le avevano tessuto intorno. Con loro amava il brivido del frutto proibito, del rozzo trattamento. Desiderava distruggere la casa da bambole, rompere le figure e sostituirle con veri esseri umani.
Un giorno, fuori dal liceo, vide un giovanotto in motocicletta. Era troppo vecchio per frequentare la scuola. Ma gli piacevano quelle ragazze. Si chiamava Franklin Moran...
Pensava: Franklin sei forte e mi puoi strappare a loro. Giaceva sulla sabbia umida e gli sussurrava all'orecchio. Lui la baciò. Un fuoco selvaggio la pervase. Desiderava ardentemente vivere. Il corpo la sopraffece di nuovo. Fu rimescolata da quel fuoco segreto, dall'estasi delirante del corpo di lui. Sentì il petto sollevarsi ed abbassarsi contro quello dell'altro. Il tempo, come una nuvola tempestosa, la stava minacciando. Non c'era tempo. Franklin, sussurrò, Franklin, prendimi, prendimi adesso...
Quando ritornò, coi capelli sporchi di sabbia ed umidi di salsedine, Franklin aspettava in auto, incerto se entrare. Li udì strillare in cucina. Carlotta era in lacrime. Lui urlò che intendeva sposarla. I genitori gridarono e lo scacciarono dalla casa. Ma lei lo seguì. Erano entrambi spaventati, entrambi seguiti da maledizioni e da odio, entrambi che si domandavano che cosa il mondo avrebbe fatto di loro. Nell'oscurità, Carlotta capì, mentre Franklin innestava la marcia e partiva, che l'incanto era spezzato. Qualunque cosa avesse sofferto, qualsiasi cosa avesse fatto o trovato lungo la strada come punizione, sarebbe stato il logico prezzo della indipendenza.
Per quanto ne sapeva, da quel giorno i suoi genitori erano morti dentro di lei. Per quanto ne sapeva...
Mentre percorreva gli ampi viali, si domandava se la morte avesse mai placato l'anima del padre. Se l'annientamento avesse veramente lenito un'anima simile, colma di odio verso di sé e tanto confusa. Forse, tutto sommato, lui aveva veramente desiderato l'annientamento più di qualsiasi altra cosa. Certamente più della vita con quella donna nervosa ed ostile che accidentalmente gli aveva dato una figlia.
Come in un sogno le palme ondeggiavano vicine nella notte. Nessuno vegliava. Nessuna luce era accesa. Persino Pasadena era assurdamente tranquilla. In una di quelle tante case, abbarbicata ad una proprietà decorata da sculture, c'era sua madre. Un'estranea ormai, magra, imbalsamata nella propria abnegazione e paura. Avrebbe salutato Carlotta sulla porta? Avrebbe accolto i figli illegittimi? Oppure avrebbe gridato, come visitata da legioni di demoni, chiudendola fuori? Certamente l'età l'aveva addolcita, piegata a sentimenti caritatevoli...
Più Carlotta si avvicinava, riconoscendo strade, giardini e panorama, più i ricordi si facevano urgenti. Ricordi angosciosi di una bambola meccanica che si batteva per la sua vita. Come poteva portare dei bambini in un simile ambiente? Come sacrificare tutto ciò che era divenuta e duramente aveva imparato? Che cosa rimaneva di sua madre? Era una donna distrutta ed umiliata? Una vecchia signora amara, rinsecchita, con capelli bianchi ed occhi sospettosi? Non era meglio lasciare tutto il passato nell'ombra? Come poteva essere d'aiuto? Con gli occhi divenuti caldi e umidi, Carlotta svoltò, rallentò e poi vide la casa.
Grande e severa, fermamente ancorata al terreno con pilastri e tetti massicci, era esattamente come la ricordava. Ma più estranea, più spettrale. C'era la luce accesa in quella che doveva essere la cucina. Sua madre vi sedeva da sola? Le stelle sopra la casa sembravano ammiccare in modo malevolo. Era la causa di tutto, pensò Carlotta. Ogni cosa nella sua vita, ogni decisione presa, non importa dove, proveniva da quella casa. Qui l'avevano concepita, formata, plasmata, finché non erano stati soddisfatti di averla fatta a loro immagine. Ed ora ritornava. Non era la prova della loro vittoria? Avevano vinto i morti. I morti viventi avevano vinto. Perseguitata dai propri incubi, Carlotta era in procinto di tornare nel mondo d'ombre che aveva odiato. Sarebbe sparita, si sarebbe distorta, avrebbe cessato di battersi.
Con una torsione disperata del volante, senza sapere che cosa stesse facendo, sterzò violentemente la Buick. La casa si allontanò e disparve. I viali familiari rimpicciolirono, ormai erano spariti. Carlotta si ritrovò a respirare più liberamente mentre attraversava la vecchia autostrada ed imboccava la nuova, per lasciare velocemente Pasadena per l'ultima volta.
Le mani di Carlotta strinsero più forte il volante. Si diresse verso Santa Monica, uscì nella West Los Angeles e girò attorno al centro industriale. Una vita da marionetta è peggiore che nessuna vita, concluse fra sé. Gli alberi ed il panorama familiare della Kentner Street si approssimavano. Raggiunse l'ultimo isolato.
«Ehi, mamma», disse Billy sfregandosi gli occhi insonnoliti. «Credevo che fossimo diretti a Pasadena».
«Non in questo viaggio».
«Voglio andare a 'Dena», protestò Kim.
«Ssss», ammonì il ragazzo. «Farai inquietare la mamma».
«...'Dena», ripeté Kim.
«Ssss», ripeté Billy.
Le bambine stavano facendosi nervose. Lo si avvertiva. Come una scarica di elettricità. Anche Bill era irritabile. Carlotta notò che il servizio comunale aveva potato gli alberi di Kentner Street. Tutto ciò che ne rimaneva era una fila di tronchi bizzarri, bianchicci in cima, con i rami ammucchiati in pile enormi nella cunetta e segnalati da bandierine rosse e corde.
«Buon Dio del cielo», esclamò Carlotta. «Guardate un po'. Hanno massacrato la strada».
«Come hanno fatto a tagliare tutti gli alberi?» chiese Julie.
«Metà alberi», corresse Billy. «La metà in cima. Probabilmente erano malati o qualche cosa del genere. Ora hanno un aspetto squallido».
Carlotta frenò. La casa si distingueva appena. Dietro il tetto, come sagome scure contro le pennellate blu, grige e rosate del cielo serotino, le palme s'innalzavano in macchie minacciose. Non era più la casa amichevole di un mese prima. Le sue ombre erano lunghe e cercavano di spingersi fino a Carlotta. L'interno era affondato nel buio.
«Chi lo sa?» commentò. «Chi lo sa che cosa potrà ancora succedere?».
Portarono dentro le loro cose.
La casa era afosa, ma molto quieta.
«Ti dispiace aprire la finestra, Billy?»
Sul tavolo di cucina, le mosche si ammassavano indolenti su un biscotto dimenticato.
«Che pasticcio!» esclamò Carlotta.
La notte era fredda. Le foglie stormivano. Si stava levando un filo di vento.
«Ehi», gridò Bill dalla sua camera. «La radio è rotta!»
«La tua?».
«È a pezzi sul pavimento!».
«Deve essere caduta», rispose la madre dalla cucina.
Allungò la mano sotto l'acquaio in cerca di un detersivo. Maledizione. Cimici. Prese del sapone e richiuse lo sportello. Billy arrivò dal soggiorno, mostrando parti di plastica e fili attorcigliati.
«Accidenti, mamma», si lamentò. «L'avevo costruita da solo. Ricordi? Settimo grado. Ora è tutta a pezzi».
«Non puoi rimetterla insieme?»
«No», affermò lui, sconsolato. Uscì dalla cucina, con le spalle curve e scoraggiato. «È come se qualcuno l'avesse fatta apposta a pezzi».
Carlotta aprì il rubinetto. Gorgogliò, sputacchiò, ma poi l'acqua cominciò a scorrere. Brunastra all'inizio. Poi si scaldò. Si alzò del vapore e le finestre cominciarono a coprirsi ai bordi di un leggero velo biancastro. Fuori l'aria stava rinfrescandosi.
Dalla camera arrivavano gli strilli di Kim e Julie che litigavano.
«Adesso le sistemo io», si disse Carlotta.
Si voltò. Un bicchiere cadde e si frantumò sul suo braccio in una pioggia di frammenti.
«Accidenti», protestò a mezza voce. Improvvisamente la casa si fece silenziosa. Il cuore le martellava.
Billy comparve sulla soglia con una chiave inglese in mano.
«È stato un bicchiere», disse Carlotta. «È caduto. Che cosa credevi che fosse?».
Julie spinse un viso striato di lacrime all'angolo della porta. Poi comparve Kim, con la treccina mezzo disfatta.
«Ritorna in camera tua, Kim, e preparati per andare a letto. Julie, ho bisogno di te in cucina. Muoviti!».
Julie guardò interrogativamente la madre. Appariva spaventata.
«Muoviti, Kim!».
Carlotta mosse un passo minaccioso verso di lei. La bambina sgambettò via. La si udì sbattere petulantemente i cassetti mentre si preparava per la notte.
«E non sbattere i cassetti!».
Ritornò la quiete.
Julie asciugò i piatti che la madre lavava. Si udiva Billy maneggiare metallo nella rimessa. Secchi pezzetti di corteccia morta sollevati dal vento cadevano sul tetto. Un vento secco, silenzioso.
Suonò il campanello.
Carlotta e la figlia si scambiarono occhiate.
«Vai a letto, Julie».
Il campanello suonò di nuovo. Julie andò in camera e chiuse dolcemente la porta alle spalle. Carlotta si avviò verso l'ingresso. Aprì la porta a sufficienza per scorgere una forma che nascondeva il lampione. Il cuore le martellava.
«Cindy?!».
«O la borsa o la vita!»
Carlotta maneggiò nervosamente la serratura e finalmente spalancò la porta.
«Accidenti, scusami», disse. «Entra. Non sapevo che fossi tu. Che cosa diavolo fai qui?»
«Non va bene?»
«Perbacco se va bene. Sei la manna. Soltanto che non ti aspettavo...».
«Sapevo che non saresti andata a Pasadena», ribatté l'amica.
«Non si può ingannare la vecchia Cindy».
Rimasero in cucina. Carlotta era raggiante.
«Caffè? Birra? Non c'è altro. Questa è una notte brutta in casa Moran. Che cosa hai in mano?».
Cindy aveva una piccola borsa.
«Pensavo ti facesse piacere un po' di compagnia. Immaginavo come sarebbe stata la prima notte, così...»
«E George?».
«Per quanto ne sa lui sono con mia sorella a Reseda», rise Cindy. «Non che a lui importi poi molto».
«Che Dio ti benedica. Mi sentivo un tantino, capisci, un tantino strana. Non c'è dubbio che sono contenta di vederti».
«Mi sistemerò sul divano».
«Splendido. Splendido».
Così la sera trascorse in pace. Cindy, Carlotta e Julie giocarono a carte: a rubamazzo. Vinse Julie. Era tempo di coricarsi. Rimboccarono le coperte delle bambine. Cindy osservò Carlotta baciarle nel dare la buonanotte. Dal canto suo le salutò dalla soglia. Spensero la luce e le lasciarono al buio.
«Sogni d'oro», sussurrò Cindy.
Sedettero nel soggiorno per un momento. Era accesa solo una lampada, che gettava morbidi riflessi nell'angolo in cui Cindy sedeva sul divano e Carlotta era adagiata nella poltrona. Il resto della stanza era nascosto da lunghe ombre nere.
«È freddo per te?» chiese Carlotta.
«Un po'».
Si alzò e regolò il termostato.
«Sei spaventata?» domandò Cindy.
«Non intellettualmente. Non è come se avessi paura nel cervello, quasi stessi per perderlo. È soltanto una sorta di sensazione fisica. Una specie di premonizione, ecco tutto. Mi spaventa un po'. Posso quasi sentirlo arrivare».
Cindy fissò il volto dell'amica, marcato dalla luce morbida. Era il viso di una persona che aveva già combattuto per la vita, che sapeva di trovarsi di nuovo in guerra e che la posta era alta.
I tubi che correvano sotto il pavimento produssero un suono secco. Nella rimessa Billy stava pulendo le mani dal grasso, immergendole in un secchio di saponata. Se le asciugò in una pezza sporca appesa all'interruttore della luce. Entrò in casa, fece un cenno di saluto e passò in camera sua.
«È cresciuto», rimarcò la madre.
Cindy annuì.
«Mi fa sentire vecchia», continuò. «Buon Dio. È stato sedici anni fa. Sedici anni interi. Sono una vecchia signora».
«Hai ancora un aspetto piacevole».
«Già, ma devo lavorarci sopra. Di continuo».
Cindy ridacchiò.
Dopo poco udirono le molle del letto cigolare sotto il peso di Billy che si coricava. Infine la luce si spense. Si sentì ancora il rumore delle lenzuola smosse, poi il silenzio fu assoluto.
«Credo che sia ora di dormire», disse Carlotta.
Però non si mosse.
«Sono le undici e mezzo», precisò Cindy.
«Così tardi?».
«Ripongo le stoviglie. Tu vai a letto».
Carlotta continuava a sedere in poltrona.
«Domani c'è di nuovo la scuola. Non finirà mai».
In cucina Cindy mise i bicchieri sull'acquaio. Si voltò e la sua figura si stagliava contro il buio.
«Vai a dormire, Carly. Io starò sul divano».
«Va bene».
«Vuoi dormire tu qui?».
«No. Mi spacca la schiena. Andrà tutto bene».
«Lascia la porta aperta».
Carlotta si alzò riluttante.
«Dormi bene, Cindy. Grazie di nuovo per tutto».
«Vai a riposare».
«È giusto. Buonanotte».
«Buonanotte, cara».
In camera l'aria era secca ma non calda come in soggiorno. Forse dipendeva da come era costruita la casa. La stanza era stata aggiunta successivamente e doveva essere fatta con materiali diversi. Più calce e meno legno. Comunque c'era sempre più freddo. Si pose davanti allo specchio e si spogliò rapidamente.
Nella semioscurità i seni si rivelavano come piccole macchie scure. Soltanto i minuscoli capezzoli risaltavano nella pallida luce riverberata dall'esterno. Il ventre morbido appariva rotondo nel buio ed i peli del pube erano completamente assorbiti dal nero della notte. Il suo corpo appariva un'ombra, plasmata e ricavata dall'oscurità. Persino a se stessa appariva vulnerabile.
Tirò indietro le coperte e scivolò fra le lenzuola fredde. Presto il letto si scaldò. Guardò il soffitto. Non dormiva. Immaginò Cindy seduta sul divano, mentre spiegava una coperta e poi si sdraiava e si raccoglieva. Infine tutto fu tranquillo. Billy russò un poco, poi zittì. Lentamente Carlotta si assopì. I tubi mormoravano sotto il legno del pavimento. Dapprima come un brontolio lontano, poi come un tuono che svaniva in rumori metallici. Aprì gli occhi e fissò il soffitto. Nulla. Li richiuse, affondò la guancia nel guanciale liscio e scivolò nel sonno. Dormì profondamente.
25 ottobre 1976, ore 7,22.
Carlotta avvertì l'odore di qualche cosa. Di carne. No. Sì. Ma diverso. Come di prosciutto affumicato. Si alzò rapidamente. Il sole penetrava dalla finestra, facendo scintillare le bottigliette di cosmetici accanto allo specchio.
«Cindy!» chiamò. «Che cosa stai facendo?».
«Colazione», rispose lei dalla cucina.
«Non devi!» protestò. «Comunque, dove hai pescato il bacon?».
«L'ho comperato».
«Di già?? Che ora è?».
«Quasi le sette e mezzo».
«Sei meravigliosa».
Carlotta sbadigliò e si sfregò il viso.
«Devo essere spaventosa», commentò.
«Un tantino informale, lo ammetto», rise Cindy.
Julie sgambettò dentro, in camicia da notte. Dietro a lei c'era Kim, con le sole mutande. Sorrideva incerta, ancora assonnata e si sfregava gli occhi. Trascinava sul pavimento un vecchio cane di stoffa.
«Guarda un po' chi c'è», disse Cindy. «Sedete, signore. I fiocchi di granturco sono in tavola».
«Ora debbo vestirmi», dichiarò Carlotta. «Arrivo subito».
Ritornò in camera. Scelse con cura un tailleur a scacchi. Aveva ampi risvolti. La camicetta bianca la faceva piccola e pettoruta. Una cosa che le piaceva. Billy entrò in cucina, abbottonandosi i blue jeans.
«Buongiorno, Mrs. Nash», disse.
«Buongiorno, Mr. Moran».
«Che c'è per colazione?».
«Siediti, Mr. Moran», rise Cindy. «Ti servirò personalmente».
Billy si sistemò davanti alla tavola. Osservava fuori dalla finestra la giornata radiosa. Coi piedi nudi picchiettava sul linoleum. Il sole si riversava gioioso dalle finestre. Fuori, foglie esibivano orgogliose un colore gialloverde ed apparivano luminose quando si spingevano fuori dell'ombra della casa. Sopra i tetti il cielo era azzurro.
«Bella giornata», commentò Carlotta, quando fu di ritorno.
«Perfetta», convenne Cindy.
Questa raccolse piatti e tazze e li posò sull'acquaio.
«Ehi», protestò Carlotta. «Che cosa credi di fare?».
«Tu vai a scuola. Porterò fuori i bambini e riassetterò».
«Niente del genere...».
«Farai tardi».
«Cindy...».
«Parlo sul serio. Guarda l'orologio. Sono passate le otto».
«Accidenti. Hai ragione».
Cindy si asciugò le mani nel grembiule.
«Per quanto riguarda questa sera, forse dovrei tornare a casa».
«Ma certo. È naturale», rispose Carlotta dopo una lievissima pausa. «Ti sono così grata».
«Lascia perdere, per favore. Ora vai. E guida prudentemente. Faccio vestire io le bambine».
«Sei un vero angelo, Cindy».
Carlotta prese il quaderno di stenografia ed uno più grande a fogli sciolti dal tavolo di cucina.
«Bene, buongiorno a tutti».
Ci fu un coro di saluti.
Carlotta camminava nel sole. La brezza era tesa ed agitava le foglie sopra i marciapiedi ombreggiati. L'automobile era ancora fredda. Vi salì e fece un cenno di saluto a Mr. Greenspan che beveva il caffè all'uso europeo e cioè in una tazza minuscola sotto il minuscolo portico. Il vecchio rispose, brandendo un toast mezzo mangiucchiato, annuendo e sorridendo. Lei fece marcia indietro, virò e partì.
Cercò una stazione alla radio. Ma poi la spense. Superò un semaforo verde e si arrestò a quello rosso.
Vi è una leggera differenza fra Santa Monica e Los Angeles. Un semplice visitatore non la noterebbe. Ma gli alberi sono più vecchi, più grossi, più ombrosi. Si vede più gente anziana sui marciapiedi. Alcuni degli edifici risalgono a prima della crisi. Nella vivida luce del sole, quando si viaggia lentamente in una grossa Buick, è come percorrere un viale di color cremoso sotto il cielo azzurro. Non c'è nulla di simile al mondo. La brezza mattutina e l'aria fresca lustrano i prati ed i fiori. Lontano, molto lontano, tanto che si deve sapere dove guardare per vederlo, una vaga linea all'orizzonte basso è l'Oceano Pacifico.
«Buongiorno, vacca!».
Carlotta si fece di ghiaccio.
Guardò attraverso il parabrezza polveroso. La strada larga e calda si spingeva senza fine fra alberi ombrosi e lontane stazioni di servizio. Ogni suo gesto era lento. Cauto. In attesa. Non poteva essere. Non in piena luce del giorno. Toccò la radio. Era spenta. Guardò di lato.
Due uomini dal volto latino la osservarono da un furgoncino in rovina nella via adiacente. Continuavano a studiarla coi volti abbronzati, resi ancora più scuri dai baffetti. I loro occhi scorrevano sul suo collo, le spalle, i seni, i fianchi. L'automobile dietro di lei suonò il clacson. Premette l'acceleratore. Il furgoncino svoltò a sinistra. Lo vide sparire nello specchio retrovisore.
«Picchiala. Spingila».
Il cuore di Carlotta martellò. Si voltò bruscamente. La voce proveniva proprio da sopra il suo capo. Da dietro la testa. Ma non c'era nessuno sul sedile posteriore. Raddrizzò il volante, presa dal traffico del mattino e si toccò il labbro, sconcertata.
«Buttala contro la palizzata!»
«Mandala sul molo!»
La testa di Carlotta si voltò con violenza. Aveva gli occhi sbarrati e colmi di terrore. In attesa. Indagatori. Ma non c'era proprio nessuno nell'automobile. Aprì il finestrino. Il piede premeva l'acceleratore. Cercò di staccarlo. Una forza glielo spingeva.
«Mandala sulla roccia!! Sulla roccia!!»
«Spacca il volante! Fottila contro l'albero!!»
Erano due voci dementi, crepitanti, che gracchiavano come porte stridenti. L'auto prendeva velocità percorrendo la Colorado Avenue e cominciando a superare altre macchine.
«Ferma. Ferma». Gridò Carlotta, tappandosi le orecchie con le mani.
«Ah ah ah ah ah ah ah!» Risa rauche la rintronavano.
Una specie di gemito, una voce profonda, alterata, le sussurrò nell'orecchio.
«Ricordati di me, puttana!»
Il volante le scivolò dalle mani. L'auto sterzò a destra. Carlotta si afferrò al volante, ma faticava a smuoverlo. La Buick zigzagava lungo l'arteria principale di Santa Monica, quella che porta all'oceano. Zampettine di topi le tiravano i capelli.
«Pizzicala! Pizzicala!» strillò la voce.
«Spingila!» sibilò un'altra, folle.
Ora il volante era bloccato. Carlotta non riusciva a staccare il piede dall'acceleratore. O era paralizzato o vi era trattenuto. In ogni caso, era rigido, un peso morto che schiacciava il pedale.
«Buon Dio, buon Dio», gemette Carlotta, frugando in cerca della cintura di sicurezza. Però era incastrata in un interstizio. «Oh, Dio, mio Dio».
La serratura della porta fece un click secco. Il finestrino automatico si alzò con un ronzio dolce. Agli incroci i pedoni esitavano, poi indietreggiavano, guardandola severamente, mentre la Buick saettava accanto a loro.
«Mi pento Signore, mi pento di qualsiasi cosa abbia fatto, per favore...».
«Chiudi il becco!»
«Bruciala! Mettile l'accendino in mezzo alle gambe!»
L'accendino scattò di colpo e cominciò a scaldarsi.
Carlotta urlò. Si sa quando la fine sta arrivando. L'anima vuole volare, ma è prigioniera del corpo. Davanti a lei, la statua di Santa Monica, in pietra grezza e bianca brillava al sole. Più lontano c'erano cespugli di rose e contro il cielo azzurro, sessanta metri più sotto, correva l'autostrada della Pacific Coast, come un nastro di cemento che si avvoltolasse alle rocce.
«Più forte!».
Qualcosa pestò sul suo piede a schiacciare l'acceleratore. L'auto balzò in avanti. Il cervello le ronzava; la roccia scura incombeva.
«Addio, Carlotta!».
Carlotta urlò.
Di colpo, sterzò talmente forte che l'auto stridette in un arco e volò verso l'ultima fila di case.
«Torna indietro, puttana!».
Il volante rapidamente ruotò indietro. La gomma anteriore prese il bordo del marciapiede e la Buick sbandò. Due disoccupati, che oziavano nell'ombra, parvero volare all'indietro in un movimento lento, mentre l'auto faceva un balzo. In un attimo, che per Carlotta durò un'eternità, vide i clienti al primo piano di un bar alzare lo sguardo dai tavolini.
«Per favore, non lasciatemi morire», pregò, senza speranza.
Il finestrino esplose come una bomba. Ad occhi chiusi sentì i frammenti rovesciarsi sulle spalle e sul viso come una grandine pungente e leggera. L'intreccio metallico della griglia del radiatore, i parafanghi e le varie parti del motore si contorsero e si staccarono dal cofano squarciato. Violentemente proiettato in avanti, lo stomaco di Carlotta si sentì martoriare dalla cintura di sicurezza che la rimbalzò di nuovo sul sedile. Era tutta una nausea. Ogni cosa era un lungo lampo accompagnato dal rumore del metallo e del vetro che si sfasciava. Dolore e ancora dolore. Finalmente si accorse che tutto era tornato immobile.
Un uomo batté sulla portiera.
«È meglio tirarla fuori. C'è del fumo».
«Non toccarla».
«C'è del fumo!».
«Lasciala stare. Farà causa».
«Chiama un'ambulanza».
«Non farti prendere dal panico».
Un volto spiò dal finestrino in pezzi. Era amichevole, anche se spaventato.
«Non abbiamo intenzione di farle del male. Ma il motore sta fumando. Se può, dovrebbe uscire».
Carlotta voleva dirgli che stava bene e che sì, senz'altro, grazie, sarebbe uscita dall'auto, se solo lui le avesse lasciato strada libera, ma non riuscì ad aprire bocca. Tutte le parole le si arenavano in qualche misterioso, vasto e vuoto deserto del cervello. Si limitò a guardarlo stupidamente.
«Credo sia sotto shock».
«È intontita».
«Apri la portiera».
Osservarono attentamente e spalancarono la portiera contorta.
«Slacciale la cintura di sicurezza, Fred».
«Non posso. È danneggiata. No. Ecco. L'ho presa».
«Adagio. Adagio».
Carlotta si sentì sollevare. Tentò di dire che la mettessero giù. Voleva andare a casa. Invece si attaccò al collo dell'uomo e pianse.
«Sta bene. Ha soltanto dei graffi».
«È un miracolo».
«La Buick è un rottame».
Carlotta vide ondeggiare intorno a sé dei volti incerti e curiosi.
«Hanno tentato di uccidermi», dichiarò fra i singhiozzi, mentre la trasportavano in un separé del bar. «Mi uccideranno».
PARTE SECONDA
Gary Sneidermann
Che martello? Che catena?
In che fornace si fondeva il tuo cervello?
Che incudine? Che temibile stretta?
Riescono a prenderla i suoi mortali terrori?
BLAKE
5
Le pareti scintillavano di uno splendido color arancio. Era il tramonto. In alto tremolavano delle luci fluorescenti e lustravano di verde e di bianco le mani di Carlotta. In un riflesso deformato sulla finestra, lei appariva in gonna e giacca, mentre si torceva le mani.
Si udiva un brusio di voci. Si aprì una porta. Carlotta si voltò. Entrò un giovane alto. Portava una giacca bianca. Aveva capelli lunghi e scuri che si arricciavano sul colletto. Chiuse la porta.
«Sono il dottor Sneidermann», disse.
Sorrise. Un sorriso formale, educato. Indicò una sedia davanti alla scrivania. Carlotta sedette lentamente. Lui si tirò con cura i pantaloni sulle ginocchia. Si sporse in avanti. Aveva un volto bello, infantile, con occhi grigi.
«Sono al servizio psichiatrico della clinica. Questa sera sono di turno».
Sneidermann le osservò il viso. Era una ragnatela di piccole rughe. Un graffio le attraversava il mento. Gli occhi erano cupi e lo scrutavano come un animale spaventato. Sembrava sul punto di perdere il controllo.
Carlotta gli lanciò uno sguardo obliquo, come se spiasse nella nebbia. Di tanto in tanto muoveva bruscamente la testa. C'era qualcun altro in quel minuscolo ufficio? Che cosa si faceva con i vari incartamenti? Aveva dimenticato come fosse arrivata alla clinica.
«Penso che si possa benissimo andare d'accordo», disse lui.
Lo guardò sospettosa.